Se non fossi egiziano

‘Ala Al-Aswani, Se non fossi egiziano, trad. di Claudia La Barbera, Feltrinelli, Milano 2009

La questione della censura in Egitto è stata oggetto di discussione e ricerca fino a quando, alla fine degli anni ’90, da più parti della società civile egiziana si levarono richieste al governo per eliminare l’ufficio della censura, dal quale tutte le opere di narrativa, ma anche cinematografiche e artistiche in genere dovevano passare per poter ottenere il ben noto “timbro” che ne autorizzava la pubblicazione. Con il governo Mubarak questo desiderio si è avverato se non altro formalmente, poiché non esistendo più un ufficio preposto, chiunque ha diritto di esercitare la richiesta di censura.

Che in Egitto la censura esista ancora ben lo evidenzia l’Introduzione a Se fossi egiziano, titolo italiano della raccolta di racconti Niràn Sadìqa (Fuoco amico) di ‘Ala al-Aswani (titolo inziale in arabo I quaderni di Issàm Abd al-Ati). Nel raccontare al lettore la storia del romanzo e del suo ritardo nella pubblicazione, avvenuta solo nel 2004, dopo il successo di Palazzo Yacoubian, al-Aswani utilizza un discorso che tende in qualche modo a giustificare la propria scrittura e a sottolineare come, in realtà, la sua sia “letteratura” e quindi vada considerata separata dai riferimenti alla realtà sociale del suo paese.

Ora. pur condividendo l’affermazione che la letteratura sia fiction e in quanto tale non possa essere presa per realtà, non possiamo fare a meno di trovare somiglianze all’introduzione del volume e all’atteggiamento di al-Aswani con la vicenda che, a suo tempo, vide protagonista il premio Nobel Naguib Mahfuz in occasione della pubblicazione a puntante su al-Ahràm del suo romanzo Awlàd haratina (I ragazzi del nostro quartiere). In tale occasione, all’accusa di vilipendio alla religione mossa dalla prestigiosa università Al-Azhar, lo scrittore aveva risposto accettando il bando e cercando di convincere i detrattori della sua opera che il romanzo non conteneva affermazioni offensive nei confronti del credo musulmano e delle religioni monoteiste in genere.

Giustificando la propria opera con l’affermazione che il romanzo non fa riferimento alla situazione politica egiziana, al-Aswani, così come Mahfouz prima di lui, si sottomette in qualche modo al desiderio di chi vorrebbe che la letteratura fosse avulsa dalla realtà e non interferisse con le norme extra letterarie e, in una parola, accetta la censura come facente parte del campo letterario.

Tanto più che leggendo il romanzo, i riferimenti alla situazione egiziana sono evidenti e che siano intenzionali o meno poco importa se un libro è quello che vi si legge, come afferma Julia Kristeva. Del resto nelle numerose interviste rilasciate dall’autore, la letteratura occupa un posto del tutto marginale, mentre è la politica a essere al centro della sua attenzione (si veda, a esempio, la recente intervista rilasciata a Il Manifesto in data 10 gennaio a cura di M. Di Giorgio).

Ciò detto la lettura dei racconti, uniti fra loro dalla presenza di un io narrante, è estremamente piacevole e al-Aswani fornisce un quadro della società egiziana che merita sicuramente interesse.