La nave

[Quanto segue è un estratto di un mio articolo pubblicato in Jolanda Guardi, L’isola come monade umana ne La nave di Ğabra Ibrāhīm Ğabra”. In Franca Ruggieri, a cura di, Polisemie dell’isola: da Itaca ad Atlantide, Alicia Editore, Roma 2015, pp. 147-158]

cop

 

 

 

 

 

 

 

Ğabrā Ibrāḥīm Ğabrā, La nave, Jouvence, Roma 1004. Traduzione di Monica Falsi.

 

jabra

Le macerie della casa irachena di Ğabrā Ibrāḥīm Ğabrā dopo l’esplosione dell’aprile 2010 a Baghdad

 

Nell’Aprile 2010 un’esplosione a Baghdad nei pressi dell’ambasciata egiziana distrugge una casa, senza che alcuno vi presti particolare attenzione. È la casa irachena di Ğabrā Ibrāḥīm Ğabrā, dove egli ha vissuto a lungo nel suo esilio dalla Palestina. In essa libri, opere d’arte, musica, documenti sono andati distrutti. Quasi a ribadire il fatto che, per un palestinese, nessuna casa e nessuna terra sono definitivi.

I protagonisti de La Nave sono un gruppo di individui che, apparentemente per caso, si ritrovano su una nave, la Hercules, in partenza da Beirut e diretta verso il Mediterraneo a tappe intermedie, fino a Napoli. La narrazione degli eventi viene proposta in capitoli alterni attraverso le voci di ‘Iṣām Salmān, iracheno e Wadī‘ ‘Assāf, palestinese, eccetto che per un breve capitolo, narrato dalla passeggera italiana Emilia Farnesi (185-196), che si colloca verso la fine del romanzo e che rappresenta una cesura all’interno della narrazione. Fino a questo punto, che preannuncia l’evento centrale del romanzo, non si hanno avvenimenti particolari, piuttosto il romanzo si dipana attraverso una scrittura densa, riportando le discussioni che avvengono fra i passeggeri, mentre attraverso flash-back e ricordi veniamo a conoscenza delle storie dei singoli personaggi. All’interno di ogni capitolo, denominato con il nome del narratore di turno, si inseriscono inoltre le narrazioni di altri personaggi, che rendono così il testo una narrazione polifonica a tutto tondo.

Il primo dei narratori per così dire ‘ufficiali’ è ‘Iṣām, iracheno, che da subito percepiamo essere il fulcro del racconto, senza tuttavia averne la certezza. Durante i suoi studi di architettura in Inghilterra egli ha conosciuto Lumà, studente di filosofia, e se ne è innamorato. Intenzionato a sposarla al suo rientro in patria, ha visto i suoi sogni e le sue speranze di una vita insieme infranti di fronte al persistere di rancori fra le due famiglie che, sebbene facciano riferimento al passato, producono i loro effetti anche sul presente, ponendo un veto a questo matrimonio. Incapaci di opporsi al volere delle famiglie, Lumà sposa Fāliḥ, un medico, e ‘Iṣām, non potendo tollerare oltre la sofferenza, decide di imbarcarsi sulla Hercules. ‘Iṣām cerca dunque una via di fuga, ma solo per capire che non esiste un luogo fisico dove fuggire; l’unica possibilità restano la nave, in continuo movimento fluttuante sull’acqua e l’idea di isola felice, rappresentata nel testo dall’isola di Capri. Idea di isola, poiché nella realtà della narrazione una gita a Capri, da tutti agognata, verrà in realtà da tutti disertata per un motivo o per l’altro. ‘Iṣām vede il mare come salvezza:

Il mare, ponte verso la salvezza. Il mare morbido, soffice antico, amorevole. Il mare oggi è nuovamente agitato. L’infrangersi delle sue onde è il ritmo violento della linfa che spruzza il volto del cielo con fiori, ampie labbra e braccia tese come seducenti reti. Il mare nuova salvezza. Verso l’occidente! Verso le isole di cornalina! Verso le rive su cui sorgeva, dalla schiuma del mare e dal soffio della brezza, la Dea dell’amore. ( 13)

Queste parole, pensate da ‘Iṣām nell’incipit del romanzo, rappresentano un’illusione poiché, subito dopo, egli si accorge della presenza – solo apparentemente casuale come la lettrice e il lettore scopriranno verso la fine del romanzo – di Lumà e del marito sulla nave che, da un lato, vanifica il suo tentativo di fuga, dall’altro costituirà il leit motiv sottostante tutti i capitoli nei quali egli è l’io narrante. I temi che vengono abilmente analizzati da Ğabra in questa sezione del testo sono il peso delle tradizioni nelle scelte individuali e l’amore con una forte coloritura passionale. Già nel passo sopra citato il mare e le onde vengono messi in parallelo con la donna, ma il parallelo continua anche nel nome della nave, Hercules, in particolare in riferimento al mito di Ercole e Iole. Secondo una versione di quest’ultimo, infatti, Ercole chiese Iole in sposa, ma il padre rifiutò. Ercole allora minacciò Iole di uccidere i suoi familiari se ella non gli avesse ceduto, cosa che fece mentre Iole assisteva alla morte dei suoi congiunti. La Hercules, quindi, rimane il ricordo sotteso al romanzo del mito della faida familiare causata dalla passione.

Il secondo narratore è Wadī‘ ‘Assāf, palestinese. Egli “è in vacanza” espressione che equivale a dire “sono in esilio”. Preferisce viaggiare per mare, poiché “la nave ti dà la sensazione corporea di scivolare nello stesso momento attraverso il tempo e lo spazio” (47). L’estraniarsi dal tempo e dallo spazio attraverso il viaggio via mare e la permanenza temporanea su un’isola sono l’unico modo per rivivere la mancanza di una terra, quella palestinese, che vive solamente nella memoria degli esuli e che non costituisce una realtà (il romanzo è ambientato negli anni ’60). Per Wadī‘, come viene ben esplicitato nello svolgersi della narrazione, verità e bugia si confondono, poiché l’opposizione tra le due non può servire come quadro epistemico per la rappresentazione della realtà – questa sì ben tangibile – della perdita della terra per i palestinesi. Egli soffre della maledizione del viaggiare, costretto a essere sempre in movimento senza poter tronare da nessuna parte.

Al di là delle singole esperienze e dei ricordi che Wadī‘ fa lentamente riaffiorare nel corso del testo, la Palestina rimane un paese di parole. Per mantenerla in vita, dunque, è necessario parlare anche se mentendo, come fa spesso Wadī‘, poiché “Ci dev’essere un ritorno, ci deve essere” (77), e nella poesia, che percorre anch’essa tutto il romanzo per bocca di un altro personaggio, Yūsuf. Wadī‘ afferma di non amare la poesia, di trovarla inutile, così come afferma di non amare la terra e di voler essere lasciato sulla sua isola (51), ma in realtà i diversi personaggi che si alternano sulla nave nelle conversazioni con lui, svolgono solamente la funzione del controtipo, sono funzionali a una struttura contrappuntisitica: ‘Isām sfugge la terra che Wadī‘ anela e Yūsuf scrive poesie, mentre Wadī‘, pur ammettendo che tutti i palestinesi sono poeti per natura, la considera inadeguata, perché le parole non possono esprimere l’onta della sconfitta (il riferimento è alla nakba, la ‘sconfitta’ che ha dato vita allo stato di Israele). In questo, egli si fa portavoce dell’opinione di diversi palestinesi all’indomani della sconfitta del 1948, ma Ğabrā sembra contrapporgli il fatto che solo attraverso la poesia la terra, ora diventata isola che non c’è – e in diversi autori la Palestina viene assimilata a un’isola – potrà tornare a essere una realtà.

Ğabrā identifica se stesso con una generazione di palestinesi la cui presenza nel mondo arabo, all’indomani del 1948, è profondamente associata con una classe di intellettuali che erano portatori di nuove idee in campo artistico e letterario. Una generazione che fa dello spostamento e della memoria della patria una sua caratteristica. Questa generazione verrà in seguito sostituita da altri palestinesi dopo il 1967, per i quali la cultura non sarà più il punto di riferimento e che da intellettuali diventeranno combattenti. Questa identificazione con una generazione di intellettuali acculturati è chiaramente espressa in un saggio dal titolo “The Palestinian Exil as a Writer” (Jabra, Ibrahim Jabra. The Palestinian Exile as Writer. Journal of Palestinian Studies. 8.2. 77-87.), nel quale Ğabrā descrive lo stato degli intellettuali palestinesi in esilio:

If anyone used the word “refugee” with me, I was furious, I was not seeking refuge. None of my Palestinian co-wanderers were seeking refuge. We were offering whatever talent or knowledge we had, in return for a living, for survival. We were knowledge peddlers pausing at one more stop on our seemingly endless way. When in the autumn of 1948 the customs men asked me upon arrival in Baghdad to open my luggage for inspection, I offered them a battered suitcase full of books and papers, a small box full of paints and brushes, and half a dozen paintings on plywood. I was not a refugee, and I was proud as hell (77)

Atteggiamento diverso è quello di Fāliḥ, marito di Lumà, il quale, pur non essendo una delle voci principali della narrazione, permea tutto il romanzo, direttamente o indirettamente. Egli è, infatti, presente nelle considerazioni di Wadī‘, nei discorsi dei passeggeri, ma anche nei pensieri e nei flussi di coscienza di Emilia Farnesi. A tal punto che si direbbe quasi che tutto il romanzo sia una costruzione attorno a questo personaggio e alla sua decisione di uccidersi. Questo evento viene alluso all’inizio del romanzo, quando un passeggero si getta in acqua in un tentativo di suicidio, ma ne viene salvato (96-99) e aleggia per tutto il romanzo.

In un dialogo tra Fāliḥ e due dei passeggeri, Mahmūd e Wadī‘, il medico introduce il tema del suicidio; parlando di Camus e del suo Il mito di Sisifo egli afferma di non esserne rimasto convinto, poiché: “Per quanto mi riguarda, il suicidio è ancora la sfida più importante” (127). Fāliḥ pertanto rappresenta il malessere dll’intellettuale arabo che vive in una situazione per la quale si rende conto dei limiti della propria società, ma che non riesce ad attivare pratiche che portino alla soluzione di questo malessere e pertanto percepisce il suicidio come atto liberatorio.

Al termine del discorso sul proprio malessere, uno degli interlocutori di Fāliḥ afferma di sentire “odore di suicidio” (131) e, contrapponendosi a Fāliḥ sostiene: “Io rifiuto il suicidio”, anticipando in tal modo l’opinione dell’autore che verrà esplicitata alla fine del romanzo.

In quest’aria carica di tensione, la Hercules giunge a Napoli e dalla nave viene organizzata per il giorno dopo un’escursione all’isola di Capri. Capri rappresenta il non luogo per eccellenza e l’ultima parte del romanzo ruota attorno all’impossibilità dei personaggi di recarsi all’isola e di innescare i fatti – si tratta dell’unica parte del romanzo dove effettivamente ‘accade’ qualcosa – che porteranno all’epilogo del romanzo.  Sembra che tutti abbiano aderito alla gita, ma in realtà tutti, una volta di più, fingono e, con un pretesto o con l’altro, disertano l’escursione per riannodare i legami passati e per giungere alla catarsi finale, nella quale lo scopo di questo viaggio collettivo verrà spiegato. ‘Isām, novello Ulisse, ritrova l’amore di Lumà e capisce che fuggire non ha senso, mentre Fāliḥ, che pure diserta l’escursione, decide definitivamente di togliersi la vita. Gli ultimi momenti prima del suo suicidio ci sono descritti nell’unico capitolo a voce femminile, quella di Emilia Farnesi (185-196). Veniamo qui a conoscenza del fatto che Emilia Farnesi, apparentemente una semplice turista italiana, in realtà è da tempo l’amante del dottore. Anziché partecipare all’escursione a Capri i due amanti si recano in una camera d’albergo dove avviene una conversazione che prelude al suicidio. Quando Lumà torna nella sua cabina, trova il marito morto. Egli ha lasciato una sorta di testamento spirituale che preannuncia la sparizione dell’intellettuale, soggeto che sarà approfondito da Ğabrā in un romanzo successivo, In cerca di Walīd Mas‘ūd (1980). Non è un caso che il suicida sia un iracheno: l’ambiente vivace presente nel decennio 1950-1960 in Iraq, infatti, si avvia verso la sua conclusione per lasciare spazio a un’epoca più buia.

Il discorso dell’intellettuale arabo, modernista e apparentemente progressista, deve per questo implicare le donne, Ma esse, all’interno del romanzo, costituiscono un mero corollario. Molto presenti, costituiscono tuttavia solo un simbolo, perché relazionate alla terra. La scrittura e il pensiero critico sono appannaggio degli uomini e questo costituisce il limite del romanzo.