Cosa penso

Le reazioni a quanto avvenuto a Parigi mi riportano a quanto accaduto dopo l’11 settembre 2001. Anche allora, veniva chiesto a tutti, indipendentemente da chi fossero, di condannare gli attentati. Il messaggio mediatico era ed è piuttosto chiaro: i terroristi vanno condannati, l’islam è violento, si ventilano prodromi di guerra nei confronti di un generico “occidente”. Altrettanto chiaro è che la mediatizzazione degli avvenimenti porta a concentrarsi sull’aspetto violento della questione – che è presente, intendiamoci – deviando l’attenzione da un’analisi critica qualsiasi di quanto avvenuto.

Come ci ricorda Noam Chomsky, si tratta di una strategia messa in atto scientemente. Qualunque avvenimento viene letto secondo un’opposizione  con l’occidente a livelli diversi, a seconda del contesto storico occultando tutte le sfumature, tutto quello che non contrappone due culture e universi valoriali di cui una, la “nostra” sarebbe avanzata e democratica e l’altra, la “loro” violenta e retrograda.

Le analisi sin qui fatte sulla stampa e dai media in generale presentano, a mio avviso, un difetto di partenza, ovvero partono per la disamina di quanto avviene in Medio Oriente dal paradigma hegeliano dell’ascesa dell’Occidente. Ciò significa che qualunque avvenimento abbia avuto luogo o ha luogo negli ultimi duecento anni in Medio Oriente viene letto secondo un’opposizione con l’occidente. Il discorso che vuole il Medio Oriente retrogrado se non si uniforma a detto paradigma si perpetua nel tempo e perciò, come ci ricorda Derrida, diventa vero.

Questo però fa sì che tutto ciò che non si conforma a questo modello dicotomico venga omesso dal discorso: alcuni commentatori addirittura esprimono scetticismo su eventi e posizioni che non si conformano a questo discorso, poiché mettono in discussione l’idea di un nemico da combattere, e costruiscono su questo la propria carriera. Un altro modo di esercitare la violenza, anche se non fisica.

L’atteggiamento è quello filologico, come ci ricorda un grande storico del Medio Oriente, Peter Gran. Tale atteggiamento, pur se messo in crisi già negli anni 70 negli Stati Uniti, in Europa è ancora imperante e cioè: ciò che le persone dicono pensano fanno è del tutto irrilevante, quel che conta è il passato e l’essere attaccati ai testi nella conferma che un eventuale testo fornisce al discorso mainstream oggi e cioè una visione di una cultura e di oltre un miliardo di persone come violente e sanguinarie. Ciò perché quello che viene proposto è un modello dicotomico che oppone la modernità (intesa solamente come adottare il modello occidentale) al tradizionalismo (essere contro questa modernità). Chi non è a favore né contro è, secondo questo paradigma, è fondamentalista e viene incalzato da una richiesta a schierarsi a ogni costo.

Sono convinta quindi che sia necessario dare spazio a diverse voci e narrazioni per evitare che l’Oriente rimanga sempre l’oggetto di un sapere, pur approfondito, ma che rimane intrinsecamente orientalista, ossia in una sorta di sfera platonica che pretende di possedere la verità assoluta, ma che, cercando di cancellare quanto più possibile per arrivare a informazioni che escludono gli attori reali, diventa solamente una semplificazione astratta.

La parola chiave da tenere a mente è, al contrario, complessità: fino a pochi decenni fa il progresso, la modernità, l’umanità, venivano definiti per esclusione. Da qui restavano escluse diverse categorie di persone: le donne, gli omosessuali, i neri, gli animali, e così via. Tutti questi gruppi erano considerati non-umani, per così dire non erano “laureati”[1] in umanità. Con la caduta delle colonie, la fine dell’apartheid, le lotte femministe, le lotte per i diritti delle minoranze e persino il controdiscorso sul regno animale questi gruppi sono entrati nel discorso, per continuare la metafora stanno per laurearsi in umanità. Ma il gruppo dominate (bianco occidentale eterosessuale patriarcale) se costretto, seppur a malincuore, a tenere conto di queste diversità dal suo modello esclusivo, che lo rendono meno lineare e più complesso, cerca di definirsi ancora per esclusione. E allora ha bisogno di un nuovo abietto (l’abietto dell’abietto di Judith Butler) che, nel nostro caso, è l’abietto religioso e quindi il musulmano.

Ciò detto per costruire un produzione diversa della conoscenza rispetto al Medio Oriente credo sia necessario imparare le lingue locali, andare in questi luoghi, avere contatti con le persone e non con le istituzioni in via esclusiva. Rivedere la storia di alcuni paesi decostruendo alcuni punti di riferimento che sono funzionali a un discorso di opposizione come unica possibilità di relazione. Riconoscere soprattutto agentività ai popoli arabi che sono agenti e non agiti. Superare la dicotomia che ignora le diversità etniche nazionali e di classe e che presuppone falsamente una cultura islamica pura che non esiste, considerando l’esistenza invece di assetti e contesti locali.

Una seria autocritica al nostro modo di studiare e di leggere la realtà è necessaria, altrimenti è perfettamente inutile parlare di diritti umani che anch’essi, tra l’altro, sono i diritti umani dell’occidente.

[1] Utilizzo questa espressione di Alessandra Consolaro con il suo permesso.