I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi editore, Roma 2008.
Ci sono dei libri che compro e poi lascio da parte perché in qualche modo so che leggerli mi procurerà un certo malessere. Poi finalmente mi decido a leggerli, ma la lettura è dolorosa. E questo è uno di quelli.
Al di là della tendenza a stare dalla parte di un popolo oppresso, i Palestinesi, il libro di Pappe è una lettura da fare, perché lo studioso mette in fila uno dietro l’altro, documentatamente, fatti pensieri e azioni che ti ritrovi lì, sulla carta, nella loro stampata inevitabilità, e che ti costringono a porti numerose domande.
Intanto la pianificazione a partire da una logica colonialista.
Che utilizza l’occupazione territoriale e lo spostamento di persone ma anche, val la pena sottolinearlo, un certo tipo di discorso. Pappe è noto anche in Italia (forse) per aver chiamato, qualche anno fa, al boicottaggio dell’accademia israeliana, perché, come emerge chiaramente dal suo libro, perfettamente consapevole del legame fra intellettuali, in particolare – come egli stesso li chiama – orientalisti (e discorso ufficiale sostenuto dall’accademia) e potere. Ovviamente Pappe fa riferimento all’accademia israeliana, ma alla mia mente si affacciano anche quelle, diciamo, europee, dove una seria autocritica sarebbe necessaria.
Troppo spesso, infatti, la questione palestinese è discussa o in ambito strettamente geopolitico o in ambito storico, tralasciando le implicazioni culturali – perché si sa, argomento di serie B per storici e politologi. Così facendo, tuttavia, si opera una riduzione dei rapporti internazionali a una questione di violenza che non permette di rilevare la tensione esistente tra potere e istituzioni, di cui l’accademia fa parte. In tal modo si contribuisce a modellare un pensiero, un’ideologia, un’immagine dell’altro, atteggiamento questo che è stato più volte denunciato da intellettuali arabi, in particolare scrittori, e che in qualche modo banalizza la questione.
Lo so, sono noiosa, ma tant’è.
sullo smascheramento del discorso (inteso in senso foucaultiano) e sull’emergere di pratiche coloniali non solo nell’ambito culturale, ma anche storico e architettonico, un altro ottimo saggio è secondo me “architettura dell’occupazione” di eyal weizman. uno di quei saggi scritti benissimo appunto dolorosi, come scrive lei, ma necessari. lo consigli a chiunque abbia voglia di scavare nel fondo di questi meccanismi perversi.
grazie, lo leggerò senz’altro. 🙂
è uno di quei libri che vorrei essere in grado di imparare a memoria, come “la questione palestinese” di said 🙂
qui può leggere un’intervista a weizman http://it.peacereporter.net/articolo/15567/Architettare+un%27occupazione (per inciso, apprezzo molto i suoi consigli, infatti ho appena acquistato “come fili di seta”, ci vorrebbero più blog come il suo!)
La lettura della verità è troppo spesso dolorosa… Si dovrebbe diffondere la verità sulla Palestina in Italia, ma a pochi interessa e molti si accontentano delle favole dei telegiornali. Quando leggo sulla Palestina mi viene troppa rabbia… E dolore… Vorrei fare qualcosa, a volte anche di violento, ma poi rammento che l’unico modo per combattere a favore della verità è quello non violento. Una penna può far male più di una spada, ma i potenti, garanti della menzogna, posseggono quasi tutti i fogli su cui scrivere.