Superman è arabo

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Joumana Haddad, Superman è arabo, trad. di Denise Silvestri, Mondadori, Milano 2012.

Come spesso accade, le vie della lettura sono infinite. Ho iniziato a leggere Superman è arabo sapendo che avrei anche potuto farne a meno. Ma non c’è niente da fare: il linguaggio che usa Joumana Haddad mi piace, questo suo dire la cosa in quel modo diretto e chiaro di modo che nessuno possa pensare di aver capito male.

Ho leggiucchiato qua e là alcune recensioni al libro e tutte, per lo meno quelle che ho visto io, sorvolano su un fatto: in questo volume Haddad afferma chiaramente di non credere in Dio e collega potere secolare e religioso come elementi di un patto secolare che ha come scopo opprimere la donna. Anziché parlare di Superman e Clark Kent, – peraltro Haddad sceglie i titoli oculatamente, così non glieli cambiano in italiano – forse sarebbe stato il caso di soffermarsi su questo e su alcuni altri concetti forti presenti nel testo come quello di “Distruggere. Distruggere. Distruggere. Per poi ricostruire” o della perdita della verginità al momento della nascita per le bambine (idea non nuova ipotizzata negli anni 70 per le ragazze in occidente e che approvo incondizionatamente) o del capitolo “Il pene: istruzioni per l’uso”. Come dire: beh Haddad è troppo nota e vende molto bene, quindi la traduciamo, però facciamo finta di niente perché da noi il modello proposto dal movimento attuale è ancora quello della donna tradizionale.

Per carità, sono consapevole che il tono è quello che è, certo non è come leggere Questione di genere, che sto rivedendo in questi giorni, ma si tratta comunque di un libro disturbante che mi procura un certo piacere intellettuale. Soprattutto, come afferma Haddad stessa all’inizio del volume, si tratta “del mio diritto di essere chi ho voglia di essere; il mio diritto di dire quello che ho voglia di dire […] nonostante le responsabilità che derivano da questi diritti e che abbraccio con gioia” (p. 20).