Romanzo arabo e “Orientalismo”

Leggo oggi un post di editoriaraba intitolato “Se la letteratura è orientalismo”, che confuta alcune affermazioni pubblicate sulla carta stampata in occasione del Salone del Libro di Torino e che mi hanno dato da pensare. Preciso che quel che segue nulla ha a che vedere con il Salone, in merito al quale ritengo si siano trascesi i limiti della decenza.

Il discorso ruota intorno al romanzo arabo partendo dalla seguente affermazione: “…al di là delle rappresentazioni occidentali che tendono a mettere al centro il romanzo”. Questo discorso mi interessa molto, perché me ne sto occupando da un po’ (ci ho scritto il dottorato), e nel 2015 ho presentato un paper proprio su questo argomento a un convegno. Concordo con quest’affermazione, che, per come la leggo io (non so se fosse la stessa intenzione di chi l’ha pronunciata), non fa riferimento alla situazione italiana in particolare, ma a un modo di studiare e considerare la letteratura araba che pone al centro il romanzo.

Nella maggior parte della produzione accademica, infatti, si tende a impostare un’opposizione binaria tra tradizione e modernità, che identitifica la modernità araba nel romanzo e che arriva sino alla contemporaneità. Io credo che, invece, si debba decostruire questo binarismo per proporre una lettura più sfumata, nella quale la modernità è presente in un testo come uno spazio nel quale voci diverse si fondono e producono ambiguità.  Il prevalere di questa tesi nell’ambito accademico occidentale – che considero un costrutto culturale – ha fatto sì che lo studio della letteratura araba rimanesse intrappolato nei limiti di una relazione con l’Occidente (and the Rest) (Stuart Hall, “The West and the Rest” in Stuart Hall and Bram Gieben, eds., Formations of Modernity, Polity Press, Cambridge 1992, pp. 275-331.). Credo, quindi, che sia necessaria una lettura che superi il binarismo e si rivolga al betweenness (Joseph Allen Boone, The Homoerotics of Orientalism, Columbia University Press, New York 2014, p. xxv.) per ripensare la letteratura araba identificando la sua produzione in scritti che vengono generalmente banditi dalla narrazione mainstream e dislocando l’Occidente come unico locus dell’ispirazione. Come afferma lucidamente Kamran Rastegar

Such a methodology also views with greater suspicion the interrelations of Arabic texts from diverse geographic and social contexts than the relations of each of these with the legacy of colonialism and European cultural imperialism. Also, this model all but ignores the fertile connections between the national-literature canon and texts from other non-European languages. (K. Rastegar, Literary Modernity between Middle East and Europe, Routledge, Abingdon 2007, p. 17.)

Questo mi sembra specialmente necessario quando ci si accosta allo studio romanzo arabo. L’opinione più frequente fra gli studiosi è che il romanzo scritto in lingua araba cominci in seguito al contatto con l’Occidente.  Ciò forse è dovuto al fatto che

Upon reflection, it appears that methodology is not an area of the field in which one hears much about challenge or change. The dominant methodology is philology. Language specialists, trained as philologists, editing texts, writing dictionaries, and producing translations are the arbiters of the field. […] to philology change is a virtual outsider. It is something which has to be explained. Philology places great weight on the idea of authoritative texts and of authoritative translations. Such texts stabilize and canonize meaning providing a normative basis of continuity. This stability is the primary goal of a philologist; how people actually speak or read or understand is less important. (P. Gran, Islamic Roots of Capitalism, Syracuse University Press, Syracuse New York 1998, p. xxi.)

Quello che mi preme sottolineare qui è che anziché valutare i testi utilizzando criteri in linea con il luogo e le motivazioni della loro produzione, la produzione accademica tende a utilizzare una cornice precostituita concentrandosi esclusivamente sul romanzo. Ciò porta a quello che Clifford Siskin chiama “novelism”, cioè “the habitual subordination of writing to the novel” (Clifford Siskin, “The Rise of Novelism” in Deidre Shauna and William Warner, eds., Cultural Institutions of the Novel, Duke University Press, Durham 1999, pp. 423-440, p. 423.) ignorando altri testi letterari e ascrivendo la caratteristica di letteratura alla produzione romanzesca in via esclusiva, mentre a mio parere, il valore di un tesot è legato alla creatività e al cambiamento, indipendentemente dal genere. Quest’attitudine prevalente, unitamente all’interesse per il nazionalismo – come il “novelism” considerato moderno poiché il tipo di stato cui ha dato origine è “simile” a quello occidentale – crea ciò che Karman Rastegar definisce come “nationalist-novelist paradigm”, un paradigma che “has limited scholarly perspectives”. (Karman Rastegar, Literary Modernity between the Middle East and Europe, Routledge, Abingdon 2007, p. 13.)

Per quanto mi riguarda, dunque, l’affermazione: “…al di là delle rappresentazioni occidentali che tendono a mettere al centro il romanzo” ha un senso. E’ vero che, in diverse occasioni, vengono presentate anche opere diverse dal romanzo, ma sono una minoranza rispetto al prevalere del “novelism”. “Orientalismo”, in quegli articoli, vuol forse significare la lettura della produzione culturale del mondo arabo attraverso quest’ottica, che è ancora fortemente autoreferenziale.