Per una teoria (e una prassi) della traduzione dall’arabo (3)

L’articolo di Farġali non può non essere preso in considerazione. Pur non facendo riferimento alla situazione italiana, parla di “nuovo orientalismo” e dell’inutilità delle traduzioni e dei premi letterari locali e questa posizione viene da un autore egiziano, proveniente cioè dal paese con più traduzioni in lingua straniera. L’articolo,[8] apparso su Al-Ḥayāt, è una ripresa di un articolo comparso sul blog[9] dell’autore nel mese di agosto dello stesso anno, che è il 2012, quindi assolutamente recente e posto in parallelo con un articolo di Ğābir ‘Uṣfūr del 2010[10] nel quale si parla per la prima volta di neocolonialismo in questo contesto. Nel 2012, dunque, Farġali afferma:

– che il problema principale che si trova ad affrontare la traduzione dall’arabo è l’assenza di un progetto di traduzione

– che le società occidentali selezionano le traduzioni in base a quanto possono sconfinare con la sociologia, in particolare in relazione alla condizione femminile, al terrorismo e alla violenza (questi primi due punti vanno di pari passo, nel senso che la scelta evenemenziale è conseguenza ma anche causa prima della mancanza di un progetto)

– che l’ideologia della globalizzazione propone un’immagine dell’oriente negativa (vedi quanto detto supra sulla necessità di creare connessioni piuttosto che di creare un modello unico)

– che per supportare questa visione si fanno traduzioni che nulla hanno a che vedere con il valore letterario di un’opera

– che gli autori maghrebini di valore vengono lasciati da parte

Ora, ritengo che tutti questi punti vadano discussi. Le opinioni al riguardo possono essere differenti, resta il fatto che è così che la traduzione viene percepita da coloro che vengono “tradotti”. Il concetto di colonialismo epistemologico che deduciamo da queste considerazioni di Farghali si riferisce non a un discourse collocato in un determinato momento politico e storico, ma a un discourse che si perpetua ormai da troppo tempo e che vede nelle traduzioni un suo strumento.

 

[8] I. Farġalī, “Hal tark al-adab l-‘arabī l-mutarğam aṯaran fi-l-ġarb?”, Al-Ḥayāt, 30.09.2012.

[9] I. Farġalī, “Hal hunak ahammiyya li-tarğamat l-adab l-‘arabī ilà luġāt ağnabiyya ḥaqqan?”, reperibile all’indirizzo: http://ifarghali.blogspot.it/2012/08/blog-post.html (ultimo accesso 25.10.2013).

[10] Ğ. ‘Uṣfūr, “Hawāmiš li-l-kitāba. ‘Alamiyyat an-naz‘a al-istišrakiyya al-ğadīda”, Al-Ḥayāt, 02.06.2010, n. 17225, p. 17.

 

Una risposta a “Per una teoria (e una prassi) della traduzione dall’arabo (3)”

  1. Non posso che essere d’accordo su quanto scritto in questi articoli.
    Mi sento di aggiungere però che in Italia, più che in altri paesi occidentali, risentiamo della necessità di traduzioni espressamente in italiano anche di tutti i testi prodotti in occidente, riducendo implicitamente l’accesso alla sfera degli intellettuali stranieri che esprimono il proprio dissenso su questa pratica di selezione, applicando a nostra volta una selezione su i testi anglosassoni (e non) più affine al nostro approccio culturale italiano (purtroppo ultimamente decisamente bistrattato).

    Da profano vedo questo ulteriore isolazionismo italiano, questo amore morboso verso la nostra (bellissima) lingua, come un enorme limite che ci incatena. Gli strati sociali meno intellettuali e più influenzabili da queste selezioni leggono, ascoltano trasmissioni e film in italiano. Soprattutto in questi ultimi avviene una selezione analoga all’editoria, che grazie a un’eccelsa scuola di doppiaggio, ci ha sempre reso accessibili solo film “di cassetta” che spesso vengono proposti con espressioni a noi familiari, spesso travisando battute altrimenti indoppiabili. Questo fenomeno è facilmente riscontrabile confrontando i sottotitoli in italiano, tradotti direttamente dal copione originale, con quanto effettivamente doppiato.

    Questo mio discorso, molto poco accademico, rende però evidente la bolla linguistica in cui siamo imprigionati che non può che enfatizzare il difficile compito dei traduttori italiani che cercano di proporre punti di vista alternativi e meno stereotipati delle culture orientali. A maggior ragione di quelle di lingua araba, o meglio, che usano la scrittura araba, che in questo momento storico risentono ancora pesantemente dei recenti contrasti politici con il mondo occidentale.

I commenti sono chiusi.