Non ho peccato abbastanza

Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee, a cura di V. Colombo, Mondadori, Milano 2007

Ne La rivoluzione del linguaggio poetico, Julia Kristeva afferma che la poesia, nel momento in cui rompe con i codici linguistici di una società, è portatrice di un elemento rivoluzionario. L’antologia di poetesse arabe Non ho peccato abbastanza dimostra quanto quest’affermazione sia fondata non solamente per il contenuto dei testi presentati, ma anche e soprattutto per il ritmo fonico e semantico di queste poesie, che produce un effetto estraneo alle abitudini della lingua, rimandando alla memoria di tutti i suoni possibili. Anche lette in traduzione. Ci appare così innegabile la scelta delle poetesse arabe contemporanee di staccarsi dalla forma poetica tradizionale in quanto rappresentante della società patriarcale e non rappresentativa del femminile. Scelta forte che testimonia del percorso intrapreso dalle pioniere della poesia libera ma che anche lo supera e, superandolo, fa sì che questa poesia sia veramente universale e rimandi, come dicevamo, a tutti i suoni possibili e, aggiungiamo, in tutte le lingue possibili. Non è un caso quindi che apra la raccolta il testo di Jumana Haddad, Il ritorno di Lilith. Lilith, presente già nella mitologia sumera, è la prima “Eva”, colei che, per non aver ceduto in nulla al principio di eguaglianza, sarà trasformata dal maschio dominatore in un essere terrificante, venuto sulla terra per strangolare, ghermire, sedurre, avvelenare, assassinare, senza che l’uomo la comprenda. Lilith, mito che ha percorso tutte le culture fino a tempi recenti (basti pensare a Lulu di Wedekind), simboleggia la prova necessaria della separazione che ciascuno deve affrontare per vivere, pena la propria aridità. Haddad ne è pienamente consapevole quando afferma:

“Io sono Lilith E ritorno dal mio esilio
Per ereditare la morte della madre che ho generato”.
(Jumana Haddad, Libano, p. 8).

Questa tensione in negativo e la pressante richiesta all’uomo di affrontare e superare la scissione fra i generi sono presenti in quasi tutte le poesie presentate nell’antologia.

“Ordini birra al telefono
Con la sicurezza di una donna che parla tre lingue
E che spinge le parole in contesti sorprendenti”

scrive Iman Mersal (Egitto, p. 87), parlando di un’amica alla quale

“colpisco il viso
Con una volgarità di cui sono degna
E una grossolanità ben scelta”,

in tal modo denunciando la consapevolezza della violenza alla quale non è possibile sottrarsi e che permette, come ci ricorda Fatima Na’ut (Egitto, p. 99) che

“Ogni volta che muore un uomo
sboccia un fiore
sulla mano di una donna”.

Non si pensi che siano casi isolati: in tutte le poesie di Non ho peccato abbastanza il dolore è sotteso, con sfumature diverse certamente, ma sempre presente:

“Talvolta, la sera, scoppio a piangere
poi mi adiro per le mie lacrime
che hanno illuminato il mondo e consumato me”
(Hoda Ablan, Yemen, p. 117).

Poesia come denuncia dunque, come lava che erutta da un vulcano

“La pelle della donna sogna qualcuno che la possa leccare”,

afferma Zhabiya Khamis, (Emirati Arabi Uniti, p. 193), come scriveva Hanàn aš-Šaykh in Hikayat Zahra. Del resto,

“Ogni corpo
è un essere vivente.
Ogni poesia
è femmina!”

(Hamda Khamis, Bahrein, p. 215).