Middle East Masculinity Studies 2

Posto qui un commento di Francesco Mazzuccotelli al mio post che potete leggere qui. Su Hoda Barakàt, citata inel commento ho scritto qui.

L’idea di fondo dell’articolo è molto valida: è troppo comodo ridurre le forme dell’agire politico, incluse soprattutto le espressioni di malcontento, all’insoddisfazione del “maschio (arabo) in crisi”.
Si capisce che una semplificazione di questo tipo sia di moda in alcuni ambiti accademici e, di riflesso, in molti ambiti giornalistici. Non sia mai che tiriamo in ballo argomenti troppo poco postmoderni, come l’idea che l’agire collettivo può essere determinato da ideali politici e valori/criteri morali condivisi collettivamente. Soprattutto, non sia mai che a qualcuno possa venire il dubbio che esistono ancora i conflitti di classe, e ancor più che questi possano avere una traduzione politica! (Spero che si capisca il sarcasmo.)

D’altra parte, poiché gli ambiti delle sessualità e delle identità di genere sono probabilmente tra quelli in cui più emerge l’armamentario orientalista, c’è tutta una definizione del “maschio arabo” che trasuda orientalismo da tutti i pori. Come disse una volta una conoscente libanese, “noi musulmani siamo sempre in errore: se non pratichiamo abbastanza il sesso, siamo complessati; se lo pratichiamo troppo, abbiamo il chiodo fisso”. Sembra di cogliere una ipersessualizzazione degli uomini arabi, così come di quelli “latinos” in America, sotto cui, secondo me, spunta sempre la proiezione di parecchie fantasie erotiche (anche omoerotiche) occidentali.
Gli uomini arabi, latini, caraibici e afroamericani sono descritti così: calorosi, vogliosi, e, se non trovano sufficienti sfoghi alle loro pulsioni, si dedicano alle rivoluzioni, al terrorismo, o si uniscono a qualche banda di periferia. Pare ridicolo pensare di dover confutare un’immagine simile, ma grattando sotto la superficie di molte analisi, anche provenienti dalla cosiddetta sinistra moderata, si coglie un quadretto proprio di questo tipo.

Ho trovato anche molto interessanti i ripetuti avvertimenti sul fatto che gli studi di genere e la “queer theory”, se declinati maldestramente, prestano il fianco a un discorso di tipo neocolonialista e imperialista, celato sotto il pretesto dell’intervento umanitario.
Su questo, in particolare sul collegamento tra alcuni discorsi sull’omosessualità e alcuni discorsi più o meno esplicitamente neocolonialisti, hanno scritto abbondantemente Joseph Massad e Jasbir Puar (di cui spero di poter leggere “Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times”).

Dette tutte queste belle cose, devo dire che l’articolo di Amar mi ha anche piuttosto irritato per il suo tono di autocompiacimento intellettualistico (piccolo borghese, mi vien voglia di aggiungere), addirittura al di là dei consueti parametri accademici. Trovo fastidioso che concetti non poi così difficili, anzi accessibili da una qualsiasi persona di media cultura, debbano essere espressi in un gergo che sembra essere accessibile solo a chi ha fatto un dottorato in sociologia, variante Foucault-Agamben. Poi ci lamentiamo che la gente ripeta le semplificazioni e le immagini stereotipate diffuse da alcuni mezzi di comunicazione di massa.

Sarei cauto sulle conclusioni. Non credo che si debba essere prevenuti in partenza su tutti i contributi legati allo studio della costruzione dell’identità maschile. L’idea forte dell’articolo è che bisogna stare in guardia contro le mode, incluse soprattutto quelle accademiche, e le tendenze riduttive troppo nette e superficiali.
Però ci sono libri, come quello di Mai Ghoussoub e Emma Sinclair-Webb (“Imagined Masculinities: Male Identity and Culture in the Modern Middle East”, Saqi 2000) che per me sono imprescindibili e che mostrano come le identità maschili, l’idea dell’uomo/del maschio (immaginata e immaginaria, appunto) siano costruite in relazione con molteplici aspetti politici, sociali, culturali, economici e di classe.
Questi sono studi che non negano e non appiattiscono la complessità (e soprattutto le dimensioni politiche ed economiche), ma anzi ne mostrano gli aspetti più reconditi, in cui sfuma la presunta distinzione tra “pubblico” e “privato”.

Un’ultima, pedante annotazione. 🙂 Paul Amar cita un autore che cita “La pietra del riso” di Hoda Barakat, dicendo che l’omosessualità viene presentata nel libro come una condizione di sconfitta o di impotenza del maschio. Siccome ho letto il romanzo il mese scorso, mi pare che le cose non stiano proprio in questo modo.
Sicuramente è notevole che il protagonista del romanzo sia un omosessuale assai complessato. Ma il punto centrale, come in tutti i romanzi di Hoda Barakat, mi è sembrato il labile confine tra “normalità” e follia, anzi proprio il tema della pazzia come via di fuga rispetto agli orrori della guerra: in una società dove il modello di uomo maschio vincente è quello del miliziano combattente, la follia pare essere l’unico canale per attaccarsi alla propria fragilissima umanità. Ma questo mi sembra un discorso che va al di là dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale.