Letteratura dal Medio Oriente

Anna Vanzan ha pubblicato ieri sul suo blog un post dal titolo “Letteratura dal Medio Oriente: una breve riflessione”.

Ovviamente condivido al cento per cento, come chi mi legge può ben immaginare.

Siamo sempre lì: anziché chiedersi che valore hanno i punti di sospensione piuttosto che la punteggiatura in luoghi diversi da quelli previsti dalle regole dell’italiano (se poi una punteggiatura serva all’arabo è tutto da discutere, per me non ne ha proprio bisogno), che funzione svolgano certe metafore o elementi stilistici, e cercare di apprezzare un modo diverso di scrivere, si dice che un testo è scritto male o tradotto male perché non si uniforma/conforma alle nostre regole. Cosa dovremmo pensare allora di Kafka, che fa un uso personalissimo della punteggiatura, o di Goethe per cui esistono dei Vocabolari specifici perché creava parole nuove? Ma loro sono dei geni – e certo lo sono – ma se uno si chiama Mutanabbi è uno ‘strano’.

Questo post capita a proposito. Proprio in questi giorni per l’ennesima volta ho sentito dire che l’arabo è una lingua alogica perché mette il verbo in prima posizione (grrrr) e ho sentito dei commenti su una persona che traduce piuttosto negativi, solo perché non si uniforma a un certo tipo di traduzione scorrevole (ed è indipendente presumo).

Come facevo con i miei studenti specialmente madrelingua consiglio a tutti di leggere La diceria dell’untore di Bufalino. Tanto per capire che in italiano non esiste un solo stile di scrittura, quello banalizzante…

Il post di Vanzan mi conforta nelle mie idee sulla traduzione; il panorama, tuttavia, è desolante.

2 Risposte a “Letteratura dal Medio Oriente”

  1. Come non essere d’accordo con te? Però è un bel dilemma.
    Nel mio piccolo, ho incontrato problemi proprio di questa natura; spesso una frase , un’espressione o una traduzione è stata presa come un tema scolastico da “corregere” da parte dei miei interlocutori. Prediligere un modo di traduzione rischia di “banalizzare” (come, del resto, anche tu ne convieni) ma, nell’altro modo, si rischia di allontanare i possibili lettori rendendo una letteratura piuttosto non “familiare” in roba da elite, da addetti ai lavori.
    Già tradurre riduce i colori, i sapori, i profumi dell’originale; se dovessimo poi omologare il resto non rimane altro che un insipido e aforme nasciturno che andrà a snaturare i meriti della traduzione stessa, svuotandola di quell’arte che è.
    Alla fine io credo che non esista un solo modo di tradurre, perciò di volta in volta, va presa in considerazione una versione “idonea” (se si può consentire questa espressione).
    Grazie

  2. Per “un solo modo di tradurre” e “idoneo”, intendo dire che bisogna, possibilmente e di volta in volta, trovare (ed è questo il compito nonché l’arte, dell traduttore) la “versione” di largo consenso; del resto, molte opere hanno avuto diverse traduzioni e diversi traduttori.

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