La candela e i labirinti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tahar Wattar. (2019). La candela e i labirinti. Trad. di H. Benchina. Milano: Jouvence.

Alcuni giorni fa ho partecipato a un convegno organizzato dall’Università di Bergamo dal titolo “East in Translation” davvero interessante. Nel mio intervento, prima di passare al contenuto specifico, ho voluto esplicitare perché stavo parlando in lingua italiana (il convegno era internazionale, il keynote speaker era Lawrence Venuti e diversi interventi erano in lingua inglese) partendo dall’affermazione di Pierre Bourdieu “Les linguistes ont raison de dire que toutes les langues se valent linguistiquement; ils ont tort de croire qu’elles se valent socialement”.

Con questo voglio dire che esiste una dominazione linguistica che è quella della lingua inglese che si esplica anche e soprattutto attraverso la traduzione. Tutte le lingue sono in competizione per il potere nel mercato linguistico (come lo chiama sempre Bourdieu) e, d’altra parte, esiste una dipendenza tra le leggi della dominazione e le leggi della formazione dei prezzi nel mercato linguistico. Le lingue, quindi, sono gerarchizzate secondo la loro vicinanza al potere e alla legittimità o secondo i profitti simbolici che procurano. In tal senso la traduzione viene considerata una “svalutazione” rispetto all’originale. La lingua dominante lo è, tuttavia, solamente se i locutori credono che sia la lingua dominante; per opporsi a questa posizione, quindi, l’unica soluzione è adottare una posizione “atea” come la chiama Pascale Casanova (2019. La langue mondiale. Traduction e domination. Paris: Seuil) nei confronti della lingua e cioè non credere a questa dominazione e considerare la sua autorevolezza puramente arbitraria. Esprimersi in italiano in un convegno sulla traduzione fa parte di questo “ateismo” linguistico e lo stesso vale per il fatto di tradurre dall’arabo e in italiano. Più si traduce più la dominazione linguistica è meno presente e nel nostro caso proprio perché traduciamo all’arabo all’italiano – due lingue considerate non dominanti – la valenza del gesto è  doppia. La traduzione quindi è in un certo senso una lotta per la legittimità e certamente è sempre un atto politico.

Questa premessa per spiegare come considero la pubblicazione della traduzione in lingua italiana del romanzo di Wattar. Wattar è stato un autore molto prolifico e molto attivo culturalmente in Algeria, uno dei pochissimi, tra l’altro, a restare attivo con la sua associazione Al-Giahiziyya, anche durante il decennio 1990-2000, organizzando incontri e conferenze sulla letteratura e la cultura in generale. Assicuro in quegli anni cosa non da poco. Le sue prese di posizione hanno scatenato dibattiti e anche polemiche in più di un’occasione – ne cito una in particolare perché la notizia era giunta anche in Italia, quella provocata da una sua affermazione all’interno di un video intervista nel quale esprimeva un commento facendo riferimento a Tahar Djaout altro scrittore assassinato dai terroristi e sulla quale prima o poi esprimerò il mio parere – ciononostante è riconosciuto come un grande scrittore anche da coloro che non ne hanno condiviso le posizioni.

La lettura de La candela e i labirinti è, a mio parere, un ottimo modo per colmare una lacuna importante nella percezione della storia dell’Algeria in Italia in particolare, dove ahimè in questo settore di studi vige quella che Alain Deneault chiama la “mediocrazia” e cioè la mediocrità diventata sistemica. Come ci dice l’autore stesso nell’introduzione gli eventi si collocano a ridosso delle elezioni del 1992 e del conseguente blocco del secondo turno e ripercorrono il periodo dal 1962 a quell’anno per cercare di dare una spiegazione a come si sia potuti giungere alla vittoria del FIS. E siccome l’analisi delle situazioni è sempre complessa ecco i labirinti, contro spiegazioni lineari e banalizzanti che fanno molto comodo per rassicurare chi legge o ascolta. La struttura “labirintica” appunto, rende la lettura di questo romanzo un impegno, questo è  certo. Impegnativo, anche se in un altro senso, è accettare il fatto che il Fronte Islamico di Salvezza abbia potuto riportare la vittoria alla prima tornata elettorale perché votato soprattutto da persone giovani e con un livello di istruzione elevato che ne hanno subito il fascino, salvo poi spesso andarsene dal paese perché erano anche coloro che ne avevano i mezzi… insomma c’è di che meditare a lungo leggendo questo romanzo sicuramente in primis per gli algerini e le algerine ma anche per noi lettrici e lettori italiane/i che abbiamo la tendenza a esprimere pareri e giudizi senza conoscere a fondo i paesi.

Al termine della lettura si rimane senza fiato e però con una visione molto più lucida, dopo aver seguito l’andamento labirintico dei pensieri del protagonista, figura che si ispira al poeta Yusef Sebti (poeta algerino di lingua francese), molto amico di Wattar e vice presidente della citata associazione, assassinato nella notte del 27 settembre 1993 a El-Harrach, zona nella quale abitava e dove abita anche il protagonista del romanzo. Chi legge potrà poi decidere da sé a cosa fa riferimento Wattar quando parla della “candela”. Il romanzo segue anche dal punto di vista della lingua questo andamento labirintico, con continui passaggi dal passato al presente che il traduttore, accettando la sfida, ha cercato di riprodurre in lingua italiana.

In fondo al volume un elenco dei nomi di luoghi, personaggi e cose varie citati nel testo e che fanno riferimento all’Algeria. Nel romanzo vi sono riferimenti anche alla cultura araba e musulmana in generale e a pensatori europei, il cui eventuale approfondimento è lasciato a chi legge. Personalmente ne consiglio la lettura in parallelo con Algeria tra autunni e primavere, che sicuramente aiuta a chiarirne diversi passaggi.

Infine, questa traduzione contribuisce in parte a colmare il grande vuoto delle traduzioni di letteratura algerina dall’arabo e io spero proprio che ve ne siano altre.