Chi segue questo blog ricorderà che sono stata critica almeno un paio di volte in occasione di presentazioni alla presenza di autori e autrici arabe/i a motivo del modo in cui quanto dicevano veniva tradotto. Una di queste volte è stata in occasione della presentazione di Elogio dell’odio di Khaled Khalifa. Il post mi è costato, ma non rinnego nulla di quello che ho scritto.
Questa volta Khalifa è venuto a Milano per presentare la traduzione di Non ci sono coltelli nelle cucine di questa città, edito da Bompiani e tradotto da Maria Avino.
Chi non c’era si è perso qualcosa: naturalmente l’autore, ma soprattutto, per quello che a me qui interessa la traduzione di Fouad Rouheia. L’incontro è stato condotto da un gironalista e scrittore, Wlodek Goldkorn, che ha letto il libro, cosa non scontata, e da esso è partito per intavolare un dialogo con l’autore. L’interprete ha tradotto non bene, benissimo. Intanto traduceva quello che l’autore diceva senza aggiunte personali, che non è poco, soprattutto perché in tal modo non si toglie spazio a chi è invitato, e soprattutto ne ho apprezzato la scelta dei vocaboli in italiano a seconda del contesto. Il tutto in un ottimo italiano.
E niente. Solo per dire che se si vuole si può e va a tutto vantaggio dell’autore e della letteratura araba in generale. E ovviamente l’interprete è stato pagato, molto giustamente.