IL SONNO DELLA RAGIONE

Ho ricevuto questo testo tempo fa tramite l’AITI; lo giro oggi perché l’ho riletto e mi ha fatto pensare anche in relazione a un recente dibattito su queste pagine. A me ha ricordato La distruzione della ragione.

IL SONNO DELLA RAGIONE ROTTAMA LIBRI E SFORNA PRODOTTI (SCADENTI)

Maggio 2011
Cosa c’è di scientifico in questa valutazione?
di Massimo Vallerani (M. Vallerani insegna storia medioevale all’Università di Torino)

I blog non sono sempre il luogo migliore dove manifestare un pensiero
intelligente. Piergiorgio Odifreddi ha rispettato la regola in pieno:
in un suo post su repubblica.it del 25 gennaio, subito dopo che la
ministra Gelmini ha annunciato la composizione dell’Agenzia nazionale
di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) senza
nessun umanista al suo interno, il matematico poligrafo risponde così
alle prevedibili reazioni degli umanisti: “Questo arroccamento in
difesa puzza di corporativismo e di mantenimento di privilegi. Forse è
invece tempo che anche alle facoltà umanistiche vengano applicati i
criteri di valutazione e di produttività da sempre in vigore nelle
facoltà scientifiche. In fondo, i risultati della ricerca vengono
dovunque chiamati ‘produzione scientifica’, e non si vede perché si
dovrebbero continuare a usare due pesi e due misure solo per
preservare l’esistente, che gli umanisti chiamano status quo”, e poco
dopo, con enfasi da ventennio, rincara: “È quella stessa lobby che ora
è stata ridimensionata nell’Anvur e sta combattendo per la propria
sopravvivenza, timorosa che ormai non solo il governo, ma anche gli
studenti abbiano capito che essa sta per finire inesorabilmente nel
‘cestino dei rifiuti della storia’”. Che da questo ministero uscisse
una bestialità come la scelta dei membri dell’Anvur era cosa
prevedibile. Che un soi-disant intellettuale come Odifreddi si
accodasse chioccio e soddisfatto a cotanta ministra era meno scontato.
Forse l’odore della vittoria rende ebbri. E anche ciechi.
Le facoltà umanistiche sono già dentro un sistema di valutazione;
chiedono solo di tener conto delle diverse forme di comunicazione dei
risultati della ricerca rispetto alle facoltà scientifiche che hanno
imposto a tutti i propri criteri. Di quali “privilegi” parli Odifreddi
poi non è chiaro. È noto a tutti, forse anche a lui, che i
finanziamenti alle facoltà umanistiche sono di dieci-venti volte
inferiori a quelli delle facoltà scientifiche e comunque oggi sono
pari allo zero. Ma non è questo il punto. È sul piano culturale che il
ragionamento di Odifreddi, purtroppo condiviso da molti scienziati
italici, mostra il suo aspetto più sterile. Tutte le persone dotate di
senno sono convinte che il grado di analfabetismo scientifico in
Italia sia un problema drammatico. Come drammatico è il calo degli
iscritti alle facoltà scientifiche non applicative; un dato che,
forse, qualche problema interno alle forme di selezione e
organizzazione dei corsi lo dovrebbe porre (o è sempre colpa di Croce
e Gentile?). E la soluzione proposta, invece, qual è? Togliere il
latino dal liceo scientifico? Far chiudere i corsi di laurea in
filologia o in storia della lingua? Tagliare cinque o sei storici?
Dimezzare i filosofi? Sicuri che dopo la scienza in Italia
migliorerebbe?

Eppure la mediocre provocazione di Odifreddi ha una sua rilevanza,
perché riflette un umore diffuso nelle università italiane in questi
frenetici mesi in cui si stanno mettendo a punto i sistemi di
valutazione della ricerca in sede locale. Quasi ovunque, nonostante
qualche accorgimento, si è proceduto a estendere i parametri delle
facoltà scientifiche a tutta l’università. Alla luce dei risultati,
spesso grotteschi, viene da chiedersi se sia davvero così retrograda
la resistenza degli umanisti a farsi inquadrare nel sistema valutativo
in uso per ripartire le scarsissime risorse pubbliche. Non prendo in
esame i massimi principi sulla legittimità della valutazione, la
fallacia dei criteri bibliometrici (più pezzi scrivi, più sei
produttivo, più sei meritevole), le conseguenze spesso nefaste di una
“società della valutazione” che ormai colpisce tutti i settori
dell’amministrazione pubblica guardata come un “fornitore di servizi”
di tipo commerciale (con gli studenti che diventano “customer”). Mi
basta sottolineare solo le conseguenze immediate e quotidiane che
l’applicazione del sistema avrà sulla qualità e la natura della
ricerca umanistica (essendo incapace di valutare quella scientifica
non mi permetto di avanzare opinioni in quel campo).

Facciamo qualche esempio. In quasi tutte le università si è accettato
il criterio di dare un punteggio per ogni tipo di pubblicazione, sul
modello, appunto, degli scienziati, che però hanno forme di
comunicazione molto diverse. Nella mia università, per esempio, tutti
gli articoli valgono 1 punto; le monografie valgono 3 punti; gli “atti
di convegno”, se li chiamiamo all’americana, paper, 0,3; se li
chiamiamo all’italiana, “capitoli di libro”, 1 punto; tutto il resto,
recensioni, prefazioni, traduzioni ecc. vale 0,3. Non essendoci una
scala di valutazione delle riviste (ma questa è una distorsione
locale), pubblicare sulle “Annales” o sul “Bollettino degli scout di
Biella” è uguale; così come scrivere un articolo di 3 pagine o uno di
40 merita lo stesso punteggio. Soprattutto, la monografia vale quanto
tre articoli; le edizioni critiche valgono come un articolo; una
traduzione, anche di 1000 pagine, vale poco più di zero. Ora,
nonostante le differenze locali – a Bologna esiste una classificazione
delle riviste, non priva di problemi (per esempio, chi decide quali
riviste valgono di più), a Palermo invece non c’è differenza fra
articolo e “altre pubblicazioni”, valgono sempre 1 –, i rapporti di
proporzione sono di fatto i medesimi, quindi si prevede che saranno
recepiti anche in sede di Anvur. Con quali conseguenze non bisogna
essere scienziati per capirlo.

Lasciamo stare le piccolezze personali che già ora affliggono molti di
noi: recensioni fatte passare per articoli, guide del Touring
spacciate per monografie, traduzioni di libri già esistenti inserite
come libri nuovi, capitoli di libri come fossero libri (da 1 a 3, che
salto!). Gli effetti pesanti sulla ricerca sono altri. In primo luogo
i libri e le monografie sono destinati a scomparire: in termini di
“punti” conviene fare tre articoli – allo stato delle cose anche di
una pagina – per avere lo stesso risultato. Anzi un articolo
pubblicato in una rivista “A” o “Isi-gold” come dicono gli scienziati,
vale anche di più. Circolano molte voci contrarie ai libri (specie in
ambito scientifico); sinceramente non ne trovo valida neanche una: che
ci siano brutti libri in giro è indubbio, che il libro come forma di
sistematizzazione delle conoscenze su un tema debba scomparire è
un’autentica idiozia.

Scompariranno i saggi lunghi: per imitare lo stile della comunicazione
scientifica già ora in molti congressi si usa un’orrenda terminologia
da convention di sales manager: si partecipa a un panel con una
presentation di 5 minuti per un paper di 5 pagine. È vero, forse a
volte si eccede(va) in lunghezza, ma da sempre la ricerca umanistica
passa per i convegni in misura forse maggiore che per le riviste (che
sono poche), soprattutto nel caso di saggi corposi che le riviste, in
genere, faticano a pubblicare. E comunque anche gli articoli su
rivista, per fare punti (e avvicinarsi agli scienziati), saranno
moltiplicati in saggetti di poche pagine (perché fare un saggio da 30
pagine che vale 1 e non tre da 10 che fruttano 3 punti?).

E scompariranno anche le traduzioni, relegate nel limbo delle attività
secondarie. Soprattutto saranno penalizzate fortemente le edizioni
critiche, svalutate al rango di semplice articolo. In questo sistema
paradossale, il grande filologo Gianfranco Contini avrebbe ricevuto
per ogni volume della Letteratura italiana edita da Ricciardi 0,3; chi
scrive, per un divertissement erudito contro gli sproloqui di una
templarista neocon, pubblicato in una battagliera ma oscura rivista
storica, si è preso invece un bell’1! Tutto questo a favore di una
massa indistinta di saggi brevi e apodittici, contrari nella forma e
nella sostanza al ragionamento lungo e complesso necessario alla buona
ricerca umanistica (discorso che riguarda anche giurisprudenza ed
economia); meglio ancora se scritti in quell’inglese asettico da
congresso che da tempo ci affligge (qualche assaggio in quei
tristissimi abstract che ormai si mettono ovunque: “This article aims
to demonstrate that in ancient Greece war was a relevant activity”). È
questa la scientificità che dobbiamo finalmente raggiungere per
dialogare con i nostri colleghi? Mandiamo al macero interi settori di
ricerca per avere cosa? Un sistema che non porterà più soldi (chi
crede ancora al favoloso 7 per cento per le università virtuose?), che
va contro gli attuali criteri concorsuali, che serve solo a creare
finte gerarchie interne alle singole università, premiando non chi
produce di più, ma chi sforna più “prodotti” inseribili nel catalogo
senza alcuna verifica di qualità.

È sconcertante che una coalizione accademicoministeriale di così basso
livello si arroghi il diritto di decidere con totale libertà di un
patrimonio culturale e scientifico che non conosce, non capisce e
pretende di far scomparire. Con quale autorità e con quali competenze
si decreta chi finirà “nel cestino della storia”? E soprattutto chi lo
deciderà? Il nucleo gelminiano e l’arguto Odifreddi? Tremonti? Questi
sono, allo stato dei fatti, i nostri veri valutatori.

Una risposta a “IL SONNO DELLA RAGIONE”

  1. caro massimo,

    naturalmente, non discuto sulle nostre (divergenti) opinioni: ci mancherebbe che non accettassi il fatto che si possa (e magari anche si debba) pensarla diversamente da me!

    volevo solo eccepire su quella che tu chiami la mia “enfasi da ventennio”. se non altro, in onore alla memoria di trotsky, al quale si deve l’espressione “cestino dei rifiuti della storia”. nel 1917, cinque anni prima che il ventennio cominciasse…

    a presto!

    pgo

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