Gli arabi e la tratta degli schiavi africani

Per ragioni di diversa natura,[1] pur se in letteratura diversi sono gli studi che trattano del ruolo della schiavitù in nel mondo arabo musulmano,[2] la tratta degli schiavi in terra d’islām e il ruolo svolto dagli arabi nel commercio degli schiavi neri sono stati a tutt’oggi poco studiati.[3] Anche le pochissime indagini sull’argomento fanno riferimento più che a fonti e dati storici a testi di carattere letterario, alla fiorente letteratura odopoietica del periodo che va dall’VIII all’XII secolo e alla letteratura di a‘ğā’ib, del meraviglioso, che, per sua stessa definizione, poco si presta a essere considerata fonte attendibile. Solo per il periodo più recente, ma sempre con una certa difficoltà, possono basarsi su prove documentali di un certo peso.[4] Per desumere notizie sulla tratta degli schiavi neri nel mondo arabo musulmano, dunque, dobbiamo rivolgerci a fonti esterne, documenti non facenti direttamente riferimento a questo traffico, ma che ne testimoniano l’esistenza: manuali rivolti agli acquirenti, manuali di ḥisba e codici di diritto musulmano.

Possiamo collocare nel tempo la tratta araba tra il VII secolo – è del 651 la firma del trattato di baqt fra il wā d’Egitto ‘Amr ibn al-‘Āṣ e i re della Nubia – e il 1841, anno in cui il sultano ottomano Maḥmūd inviò a Muḥammad ‘Alī un firmān nel quale veniva proibita la tratta dei neri a scopo di evirazione. In questo periodo, nel corso del tempo, e soprattutto in epoca medievale, vennero redatte alcune guide del perfetto acquirente di schiavi, manuali simili a quelli degli uomini d’affari italiani di Firenze e Venezia, che venivano fatti circolare per meglio istruire i compratori sulla qualità delle merci. Questi ultimi, infatti, non avevano interesse per le redazioni di viaggio sopracitate, spesso frutto della sola fantasia degli autori e dell’immagine del mondo che la cultura araba si era creata, ma erano maggiormente desiderosi di conoscere come non incorrere, a esempio, in un incauto acquisto. Questo tipo di testi, utilizzati come vere e proprie guide, combinava anche un aspetto pseudo letterario nell’evocare paesi stranieri e nel descrivere le diverse caratteristiche fisiche degli schiavi, catalogate secondo la zona di provenienza. Per poter offrire tutte le garanzie di serietà richieste a una pubblicazione di tal fatta, la redazione di questi libelli era affidata a uomini di scienza già noti per il loro impegno in una determinata disciplina. La guida senz’altro più nota è quella redatta da Ibn Buṭlān, originario di Baġdād e noto in occidente essenzialmente per i suoi studi medici, autore del Taqwīm aṣ-ṣiḥḥa (Tacuinum sanitatis).[5] Il testo di cui andiamo dicendo, dal titolo Risāla fi širā’ al-raqīq wa taqlīb al-‘abīd (Trattato generale sull’esame e l’acquisto degli schiavi), [6] è una vera e propria fonte di notizie per comprendere come gli Arabi considerassero i neri. Già il titolo del testo di Ibn Buṭlān ci permette di operare una prima distinzione: egli, infatti, stabilisce una differenza fra il raqīq e il ‘abīd. La traduzione citata del titolo in italiano non rende conto delle scelte lessicali dell’autore. Oltre a evidenti motivazioni estetiche, legate all’uso della prosa rimata in voga nel periodo in cui Ibn Buṭlān scrive, l’XI secolo, la scelta dei termini non è certamente casuale. Raqīq,[7] infatti, ha a che fare con il candore, la trasparenza, la tenerezza e in genere la debolezza; secondo Abū al-‘Abbās la radice viene utilizzata per indicare lo schiavo in quanto questi soggetto e sottomesso al padrone[8] e denota in genere schiavi di preferenza bianchi e utilizzati per il servizio domestico, mentre ‘abd è il termine in generale dedicato agli schiavi neri[9] anche nella variante ma‘būd.[10] Nel trattato viene consigliata a chi acquista un’opportuna suddivisione del lavoro per gli schiavi di sesso maschile e femminile, nonché un’ “utilizzo ottimale” a seconda della provenienza etnica: per la sorveglianza delle persone e delle proprietà Ibn Buṭlān raccomanda indiani e nubiani; come operai, servi ed eunuchi, gli zanğ, i neri, i tratti pertinenti dei quali si riferiscono a un contesto geografico che non supera le rive dell’Oceano Indiano, dell’Abissinia e del Sudan occidentale. Come soldati, i migliori schiavi sono ritenuti turchi e slavi. Il testo di Ibn Buṭlān è utile anche per comprendere il posto che, nell’immaginario arabo musulmano, occupano i neri. A proposito delle donne zanğ, l’autore afferma a esempio:

“I loro difetti sono molti e quanto più nere sono tanto più sono brutte di faccia e hanno i denti appuntiti. Servono poco, e possono nuocere e sono dominate dalla loro irascibilità e distruttività… La danza e il ritmo sono istintivi e innati in loro. Poiché si esprimono in modo sgraziato, compensano con il canto e le danze. Hanno i denti più bianchi di ogni altro, perché secernono molta saliva, e secernono molta saliva perché digerisono male. Possono sopportare dure fatiche, ma non si può ricavarne alcun piacere per il loro puzzo e la ruvidità della pelle.”[11]

Una seconda fonte privilegiata per desumere informazioni sono i manuli di isba, ovverosia tutto ciò che aveva a che fare con il muḥāsib, il funzionario che controllava il regolare svolgimento delle operazioni nei mercati. Tali manuali, come a esempio quello di as-Sakati di Malaga,[12] del XII secolo, ci raccontano delle truffe perpetrate al mercato per ingannare i compratori, sulle quali il muḥāsib doveva vegliare, e dei metodi per prevenirle. Un altro tipo di documenti, che riveste assai più interesse per noi, sono i capitoli relativi al trattamento degli schiavi presenti nelle più importanti raccolte di diritto musulmano.[13] La preoccupazione principale, in tali manuali, è quella di regolare il mercato della tratta, fissare i prezzi, sanzionare le truffe, punire le eventuali fughe di schiavi, anticipare l’eredità e valutare l’affrancamento. A tale riguardo le sezioni che trattano della schiavitù sono quelle riguardanti le persone fisiche, nella disamina della struttura dell’istituto sciaraitico della schiavitù, che analizzano le cause della schiavitù, la posizione giuridica dello schiavo, i modi di estinzione di tale condizione. Utili per reperire informazini sono anche le i capitoli che trattano dell’istituzione della prigione: lo schiavo può essere imprigionato nell’intento di conservare i beni di terzi.[14] V’è da dire che l’argomento della schiavitù viene trattato in tutti i codici, essendo lo stato della schiavitù stessa considerato in opposizione a quella di essere umano libero, urr. Dal punto di vista del diritto, infatti, lo schiavo è considerato una persona ma, essendo sottoposto al padrone, non viene ritenuto pienamente responsabile, ed è quindi al contempo una cosa. Per quanto riguarda il diritto pubblico quindi, egli non ha piena capacità giuridica, condizione necessaria per il godimento della quale è la condizione di uomo libero, e non può quindi assumere cariche pubbliche, come quella di imām (guida della preghiera) o di qāḍī, giudice. Per quanto attiene il diritto privato, invece, gli effetti della schavitù sono mitigati da limitazioni alla sua costituzione, dai diritti legali dello schiavo, dal fatto che l’affrancamento viene sia favorito che raccomandato, secondo una delle cinque categorie in cui si dividono le azioni proprie del diritto musulmano.[15]

Spesso si sostiene che l’Islām abbia favorito l’affrancamento dello schiavo; in realtà i numerosi riferimenti al Corano – la schiavitù viene citata in 25 versetti distribuiti su 17 sūra[16]pur se in genere a favore di colui che è privo della libertà, lasciano l’affrancamento – tendenzialmente dello schiavo maschio[17] – esclusivamente all’iniziativa personale del padrone. Dunque, anche se con esempi eccellenti, come quello dello schiavo Bilāl affrancato dal Profeta Muḥammad,[18] se l’Islām non incoraggia la schiavitù, nemmeno la proibisce e questo è funzionale alla struttura della società arabo musulmana. Poiché l’Islām, infatti, non concepisce il concetto di casta né di aristocrazia, la schiavitù era necessaria e funzionale a marcare una differenza di classe. Ed ecco perché gli schiavi venivano soprattutto utilizzati in ambito domestico, a differenza della tratta atlantica, anche se con alcune differenze per quanto riguarda gli schiavi neri.[19] Quanto andiamo dicendo è confermato dall’aumento delle richieste di schiavi da parte delle classi superiori arabo berbere e di mercanti benestanti con il crescere del benessere nel mondo arabo in seguito alle conquiste.[20] Ultimo strumento utile per desumere indicazioni è la lingua araba. È certo, infatti, che, se qualcosa esite in una certa cultura, la lingua in cui questa si esprime sviluppa un linguaggio appropriato atto a descriverla. Possiamo allora far riferimento all’arabo, sempre ricca fonte di informazioni, per trarre qualche utile notizia e iniziare un nostro viaggio nel mondo della tratta. Dalla lingua e dalle fonti sopracitate sono partita per ricorstruire l’ipotetico percorso di una carovana.[21]

Scegliamo dunque una delle cinque[22] vie principali attraverso le quali si svolgeva la tratta dei neri, e partiamo dall’isola di Zanzibar, fino a oltre la metà dell’Ottocento sede privilegiata per lo smistamento degli schiavi neri della costa orientale dell’Africa e porto dal quale partivano le navi verso i mercati del Nord del contienente, dell’India e della Cina. Del resto, una delle etimologie proposte per il termine zanğ, nero, suggerisce proprio una contrazione della parola Zanzibār, nome dell’isola in arabo.[23] Sulla nave che ci conduce verso Socotra, viaggia con noi il sulṭān al-ġazwa, il capo negriero – come attesta il nome padrone assoluto di uomini e cose per il periodo della “caccia” – che in terra d’Africa ha raccolto la sua merce: uomini, donne e giovani.[24] Per poterli catturare ha dovuto piegarsi a regole perfettamente definitie che implicavano accordi costanti tra il potere, i notabili e i mercanti. Il capo di una razzia, in effetti, doveva innanzitutto ottenere la ṣalāiyya, ossia l’autorizzazione del capo locale a razziare in un territorio circoscritto secondo quanto dettato dal baqt, trattato firmato nel 651 e in vigore per oltre 600 anni tra i governatori dell’Egitto e i re della Nubia.[25] Questi definiva rigidamente il territorio di caccia e in qualche modo prendeva sotto la sua protezione i cacciatori e i negrieri. Forniva una scorta armata e proibiva ad altri di cacciare schiavi nello stesso territorio. Giunti a Socotra la carovana si suddivide: una parte si dirigerà a Zabīd, in Yemen, l’altra risalirà la costa occidentale della penisola Arabica per dirigersi al grande mercato di schiavi del Cairo. Zabīd, nella piana di Tihama, non lontano da Tà’iz, l’antica Regina Sabea, si impone sin dai tempi medievali come tappa obbligata e per il commercio degli schiavi e per la presenza di una nota accademia di scienze religiose.[26] A Zabīd gli schiavi vengono presentati dal ğallāb al mercato,[27] costituito da una serie di costruzioni con un patio sul quale vengono esposti gli schiavi in vendita. Il ğallāb, che altri non è che il negriero, il mercante che decanterà la merce – egli è colui che, come attesta l’etimologia del vocabolo,[28] ha la capacità di affascinare con la parola il compratore – enumererà le qualità dei suoi schiavi, così come enumererebbe quelle di ogni altra sil‘a, merce o bene, termine proprio del diritto musulmano nell’indicare lo schiavo, ma anche le merci e gli strumenti di lavoro.[29] Da notare che il termine viene utilizzato anche per colui che vende animali da lavoro, buoi per l’esattezza, ed è specificamente utilizzato per chi commercia in schiavi neri, mentre il mercante di schiavi bianchi viene chiamato con un termine di origine turca, yasirji. Una volta convinto dal ğallāb, il compratore acquisterà a suon di mitqāl d’oro la merce che ha scelto. In seguito, una parte degli schiavi verrà ulteriormente smistata per essere traferita ai mercati dell’India. Di questo percorso troviamo traccia, a esempio, nel termine habachi, dall’arabo per abissino, a indicare lo schiavo nero e ghulam, lo schiavo soldato, in lingua hindi. Torniamo a Socotra e seguiamo ora il carico diretto al Cairo. Qui, sin dal VII secolo, ogni anno venivano inviati dalla Nubia dai 360 ai 400 schiavi, che venivano ripartiti tra il Tesoro pubblico, il governatore del Cairo, il suo assistente ad Asswan, il magistrato della città e i dodici notabili.[30] Ed è al Cairo, vero e proprio cervello del sistema schiavitù, che si svolge un grande mercato, un ma‘raḍ, in un cortile chiuso, dove gli schiavi, nella stragrande maggioranza neri, venivano assiepati. Il cuore della tratta era collocato nel cuore della città, nel hān Manẓūr, proprio accanto al più noto hān ḫalīl, a noi noto come Cancalli, dove era possibile trovare ogni genere di mercanzia. Il hān era suddiviso in due parti, una dedicata agli schiavi bianchi e l’altra a quelli neri, tra le quali correva la via dei mamlūk, i posseduti, altro termine utilizzato in Egitto per indicare gli schiavi. [31] Le donne, quelle giovani e belle, ğārīya,[32] venivano vendute in case private collocate in quartieri dedicati come Dawlat ‘Ābad, il quartiere degli schiavi che si dedicavano a musica e poesia e dove le trattative potevano svolgersi in tutta tranquillità. Su tutti vegliava la Maẓlahat ar-raqīq bi-wakalat al-giallabīn, ovverosia l’Ufficio degli schiavi presso la corporazione dei negrieri, che aveva il compito di supervisionare la “moralità” del commercio, sorvegliare le transazioni economiche e gli ingenti introiti a esso collegati.[33] Una volta conclusa la trattativa gli schiavi e le schiave venivano portati a palazzo dove vigeva una rigida gerarchia, determinata dalla diversa provenienza e cultura degli schiavi e anche dal ruolo a essi affidato. Qui troveremo, a esempio, il Ğulām, giovane schiavo avvenente, la colta ğārīya e la nera waẓīfa,[34]. Allo schiavo nero, soprattutto originario del Sudan e della Nubia, veniva in genere riservato anche il ruolo di eunuco; questi, chiamato in arabo, con un eufemismo, maslū, “riparato, restaurato”, maṣnū‘, “manipolato”, o, più esplicitamente, muḫṣī, “evirato”, veniva utilizzato, oltre che come guardia del arīm e del diwān, anche come custode dei luoghi santi. Ogni gruppo di schiavi aveva un proprio capo; così il qa’iḍ al-wasfān, capo degli schiavi neri, sorvegliava che i suoi sottoposti non tentassero la fuga e, nel caso, li cercava per renderli al loro padrone o per indurlo a venderli, nel caso lo schiavo avesse di che lamentarsi…

La schiavitù nel mondo arabo ha sempre fatto parte della struttura sociale senza che alcuno pensasse di intraprendere una battaglia per la sua abolizione, se non in tempi molto recenti. Il noto Faḫr as-sūdān ‘alà al-bīḍān (Lode dei neri in rapporto ai bianchi) di Ğāḥiẓ[35] non può essere preso a esempio, poiché l’autore, per la difesa della sua tesi, peraltro inserita in un preciso canone letterario, gioca sulla nozione di nero, accostando agli africani genti infinitamente meglio considerate dalla tradizione come gli hindu e i cinesi. Al nero si accenna, per tutto il testo, in modo superficiale e la dimostrazione dell’eccellenza nera spesso evita di parlare proprio delle popolazioni nere o presunte tali cioè a dire zanğ, genti del Sudan e di Abissinia. La schiavitù nel mondo arabo, dunque, aspetta ancora uno studio serio. “Per tentarlo” ci ricorda Sī Maḥmūd, “non bisognerebbe avere pregiudizi né di destra né di sinistra, fare la storia naturale e quella sociale. Bisognerebbe, lo sento, essere guariti dal pregiudizio delle razze superiori e dalle superstizioni delle razze inferiori”. Sī Maḥmūd, al secolo Isabelle Eberhardt, scrive queste parole negli anni Venti, in occasione del suo soggiorno presso la zawiyya di Qnadsa, in Algeria, centro di smistamento degli schiavi provenienti da Mali e Niger.[36] Oggi, nella stessa località, i discendenti di quegli schiavi attendono ancora che si scriva la loro storia.[37]

 

[1] Principalmente le motivazioni che hanno portato alla mancanza di documenti storici in relazione alla tratta nel mondo arabo-musulmano possono essere identificate con l’estrema antichità della pratica, che in Africa risale al tempo degli antichi egizi, il fatto che gli schiavi fossero nella stragrande maggioranza donne utilizzate come domestiche o concubine, lo statuto differente dello schiavo in terra d’Islām, la cui esistenza era strettamente regolata nei suoi rapporti con il padrone. Si veda a tal proposito, M. Gordon, Slavery in the Arab World, New Amsterdam, New York 1989, p. 56 e segg. Si veda anche comunque R. Brunschwig, “‘Abd” in Encyclopedia of Islam, edizione cd-rom, Brill, Leiden 2001 e segg. Per il rapporto schiavo padrone si faccia riferimento a P. G. Forand, “The Relation of the Slave and the Client to the Master or Patron in Medieval Islam, in International Journal of Middle East Studies, Vol. 2, No. 1 (Jan. 1971), pp. 59-66.
[2] Si veda a esempio G. M. La Rue,The Capture of a Slave Caravan: The Incident at Asyut (Egypt) in 1880”, in African Economic History, No. 30. (2002), pp. 81-106; L. O. Sanneh, “Slavery, Islam and the Jakhanke People of West Africa”, in Africa: Journal of the International African Institute, Vol. 46, No. 1. (1976), pp. 80-97; J. R. Willis, “Islamic Africa: Reflections on the Servile Estate, in Studia Islamica, No. 52, (1980), pp. 183-197. Come si può notare dai titoli, vengono trattati gli aspetti più disparati ma non la tratta in relazione al mondo arabo.
[3] Oltre all’orami classico testo di M. Gordon si vedano il recente M. Chebel, L’esclavage en terre d’islam, Fayard, Paris 2007 e J. Heers, Les négriers en terre d’Islam, Perrin, Paris 2003 che, pur presentandosi come testi scientifici, si basano, per la maggior parte, su fonti di seconda mano. Recentemente, tuttavia, il fenomeno è stato ed è oggetto di interesse da parte di studiosi arabi, come a esempio in Marocco, storicamente uno dei pesi che ha usufruito di più del sistema schiavista. Sul Marocco è possibile consultare M. Abitbol, “Le Maroc et le commerce transsaharien du XVIIe au début du XXe siècle” in Revue de l’Occident musulman et de la Méditerranée, XXX, 1980, pp. 5-19; ‘A. Ibn Malīḥ, Al-riqq fī bilād al-maġrib wa al-andalus, Arab Diffusion, Bayrūt 2004. Un testo interessante è anche M. Diakho, L’esclavage en Islam: entre les traditions arabes et les principes de l’Islam, AlBouraq, Paris 2004.
[4] Si veda T. Lewicki, “External Arabic Sources for the History of Africa to the South of the Sahara” in T. O. Ranger, Emerging Themes of African History, Proceedings of the International Congress of African Historians, Nairobi 1968, pp. 14-21.
[5] Su Ibn Buṭlān si veda J. Schacht, “Ibn Buṭlān” in Encyclopedia of Islam, op. cit.
[6] Ibn Buṭlān, “Risāla fi širā’ al-raqīq wa taqlīb al-‘abīd”, edizione a cura di ‘A. Ḥarūn, in Nawādir al-maḫṭūṭāt, IV-6, 1954, pp. 333-389. Un’edizione italiana è il Trattato generale sull’esame e l’acquisto degli schiavi, a cura di A. Ghersetti, Abramo editore, Catanzaro 2001.
[7] Ibn Manẓūr, Lisān al-‘arab, Dār iḥyā’ at-tirāṯ al-‘arabī, edizione a cura di ‘A. Šayrī, Bayrūt 1988, vol. 5, pp. 288-289.
[8] E. W. Lane, An Arabic-English Lexicon, 8 voll., Librairie du Liban, Beirut 1968 , vol. III, radice rqq. Secondo Ṭabarī il raqīq, essendo utilizzato come domestico, non è destinato a essere rivenduto.
[9] Ibi, vol. V, voce ‘bd. Resta da discutere cosa intendessero con tale aggettivo gli arabi.
[10] M. Chebel, op. cit., pp. 33-35.
[11] Ibn Buṭlān, op. cit., pp. 374-375.
[12] G. S. Colin-E. Lévi Provençal, Un manuel hispanique de Hisba. Traité d’Abu ‘Abd Allah Muhammad B. Abi Muhammad As-Sakati de Malaga sur la surveillance des corporations et la répression des fraudes en Espagne musulmane, E. Leroux, Paris 1931. H. Yanagihashi, “The Judicial Functions of the Sultan in Civil Cases According to the Malikis up to the Sixth/Twelfth Century” in Islamic Law and Society, Vol. 3, No. 1 (1996), pp. 41-74.
[13] Si veda, a esempio, Bousquet G. H., a cura di, “La Mudawwana” in Révue algérienne, tunisienne et marocaine de législation et de Jurisprudence, 1959 e, dello stesso, autore, “La Mudawwana Index” in Arabica, XVII, 2, giugno 1979, pp. 113-150. Cfr. anche J. Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Franco Angeli, Torino 1995, diversi luoghi nel testo e in particolare pp. 135-139; Khalīl ibn Iṣḥāq, Abregé de la loi musulmane selon le rite de l’imâm Mâlek. 1. Le rituel, Traduction G. H. Bousquet, Publications de I’Institut d’Etudes Orientales de la Faculté des Lettres d’Alger, Alger 1956.
[14] Nejmeddine Hentati, “La prison en occident musulman médiéval”, in Arabica, Tome LIV, Fascicule 2, Avril 2007, pp. 149-188. In arabo si cfr. Ṣaḥnūn ibn Sa‘īd, Al-mudawwanat al-kubrà, Dār al-našr, Al-qāhira 2002, 11 voll. + 1 vol. di indice.
[15] Cfr. F. Castro, “Diritto musulmano” in Digesto, UTET, Torino 1990, pp. 1-66 e idem, Corso elementare di diritto musulmano, Ca’ Foscarina, Venezia 1978, pp. 6-13.
[16] Alcuni riferimenti al Corano sono IV, 92; XVI, 71, 73, 75; XXIV, 33; XXX, 27-28; XC, 8-13.
[17] Si veda A. A. Sikainga, “Shari’a Courts and the Manumission of Female Slaves in the Sudan, 1898-1939”, in The International Journal of African Historical Studies, Vol. 28, No. 1. (1995), pp. 1-24; in relazione alle schiave domestiche un’utile lettura è E. A. McDougall,A Sense of Self: The Life of Fatma Barka” in Canadian Journal of African Studies / Revue Canadienne des Études Africaines, Vol. 32, No. 2, (1998), pp. 285-315.
[18] L’importanza di Bilāl in relazione alla tratta africana resta da indagare (dal punto di vista degli studi di islamistica). Egli, infatti, è il personaggio di riferimento di una ṭarīqa legata all’islām popolare, quella degli Gnawi che di Bilāl si ritengono discendenti spirituali. Su Bilāl si veda W. ‘Arafat, “Bilāl” in Encyclopedia of Islam, op. cit. Sugli Gnawi cfr. J. Guardi, La medicina sufi, Xenia, Milano 1997, pp. 119-126; V. Pâques, La religion des esclaves, Moretti & Vitali, Bergamo 1991.
[19] Facciamo riferimento all’utilizzo degli Zanğ nella desalinizzazione del terreno circostante Baġdād nell’VIII secolo e a quello di schiavi neri nelle piantagioni di cotone in Egitto sotto il governatorato di Muḥammad ‘Alī. Cfr. G. Baer, “Slavery in Nineteenth Century Egypt” in Journal of African Studies, vol. 8, n. 3. 1967, pp. 417-441.
[20] M. Chebel, op. cit.
[21] Per l’utilizzo dei termini ho fatto riferimento oltre a W. Lane, op. cit. e a Ibn Manẓūr, op. cit.,  all’uso che ne viene fatto in letteratura. Cfr. inoltre B. Lewis, Razza e colore nell’Islam, Longanesi & C., Milano 1975 e A. Miquel, La géographie humaine du monde musulman jusqu’au milieu du 11e siècle. Géographie arabe et répresentation du monde, Mouton, La Hague 1975.
[22] La prima via risaliva lungo la costa africana da Zanzibar fino a Gibuti per andare ad alimentare i mercati di Egitto e Mesopotamia. A volte, una parte degli schiavi veniva spedita verso ‘Ammān, la Palestina, la Siria e, da lì, l’Anatolia. Il secondo percorso sfruttava l’entroterra libico, in particolare Ciad e Fezzan e alimentava i porti della costa mediterranea. La terza via si appoggiava sulla riserva dell’Africa centrale, essenzialmente il bacino del Sudan occidentale, del Mali e del Niger. Una quarta via collegava la Turchia ottomana ai paesi fornitori di schiavi bianchi. Da ultimo esisteva una via esclusivamente marittima, sulla costa mediterranea.
[23] Cfr. W. Lane, op. cit.
[24] J. Heers, op. cit., pp. 34-45.
[25] J. Spaulding, “Medieval Christian Nubia and the Islamic world: A Reconsideration of the Baqt Treaty” in The Journal of African Historical Studies, vol. 28, 3, 1995, pp. 577-594. A contrastare l’idea dell’autore che il trattato baqt fosse per l’epoca un buon sistema per mantenere rapporti pacifici, e critico soprattutto in relazione alla parte che concerne l’invio di schiavi, è A. A. James, “The Sudan distorted” in African Affairs, 90, 1991, pp. 299-304. Si veda anche Gordon, op. cit., p. 108.
[26] A. G. B. Fisher.- H. J.Fisher, Slavery and Muslim Society in Africa, C. Hurst & Co., London 1970, pp. 51-53.
[27] La descrizione che segue fa riferimento all’illustrazione riportata nel folio 105 del manoscritto delle Maqāmāt di al-Ḥarīrī conservato presso la Biblithèque nationale de France, Ms. Arabe 5847.
[28] Cfr. W. Lane, op. cit.
[29] Si veda F. Castro, “Diritto musulmano”, op. cit.
[30] J. Spaulding, “Medieval Christian Nubia and the Islamic world: A Reconsideration of the Baqt Treaty” in The Journal of African Historical Studies, vol. 28, 3, 1995, pp. 577-594. A contrastare l’idea dell’autore che il trattato baqt fosse per l’epoca un buon sistema per mantenere rapporti pacifici, e critico soprattutto in relazione alla parte che concerne l’invio di schiavi è A. A. James, “The Sudan distorted” in African Affairs, 90, 1991, pp. 299-304. Si veda anche Gordon, op. cit., p. 108.
[31] J. Heers, op. cit., p. 147.
[32] Ibn Manẓūr, op. cit., vol. 6, p. 264.
[33] M. Chebel, op. cit.
[34] Ibn Manẓūr, op. cit., vol. 15, p. 316.
[35] Al-Ğāḥiẓ, “Al-risāla al-rābi‘a. Kitāb faḫr al-sūdān ‘alà al-bīḍān” in Al-rasā’il, edizione on-line alwaraq.
[36] Sul ruolo dell’Algeria nella tratta degli schiavi si consulti S. Rang-F. Denis, Fondation de la régence d’Alger. Histoire des Barberousse, tome I et II, Editions Bouslama, Tunis 1983, Réimpression de J. Ange Editeur 1837.
[37] La presente considerazione è frutto del mio soggiorno presso la zawiyya di Qnadsa e nella regione di Béchar svoltosi nel giugno 2007.