Filosofia del viaggio

M. Onfray, Filosofia del viaggio. Poetica della geografia, ponte alle Grazie, Roma 2010

Ancora una volta Michel Onfray riesce a demolire con ammirevole onestà intellettuale e profondo senso di un’umanità liberale e liberata, ogni sterile forma di immaturo e dipendente sentimentalismo di coppia, ogni bieco approccio turistico alla differenza, ogni fasulla forma di tolleranza, deridendo abilmente e sardonicamente, al tempo stesso, le tante chincaglierie intellettuali che continuano ad adornare spazi vuoti, che ancora necessiterebbero di individui completi, autonomi, capaci, che li abitino.

Individui che sappiano guidare e ampliare la conoscenza con senso dell’utilità materiale, con avvolgente emotività e generosa apertura. Questi individui non possono che essere impersonati dal viaggiatore, detto emblematicamente “monade autosufficiente”: solo il viaggiatore può permettersi di tessere e ritessere il suo rapporto personale col tempo, “un tempo individuale fatto di durate soggettive e istanti gioiosi voluti e desiderati”.

Il libro si presenta inoltre come una vera e propria ode all’amicizia, “questo amore senza il corpo”, che nella dimensione spazio-temporale di un viaggio sa liberare tutta la sua forza autentica rispetto all’amore carnalmente inteso, più debole, più noiosamente esposto al parassitaggio e alle gelosie del compagno.

Solo gli amici, brillantemente chiamati “androgini gioiosi”, potrebbero concedersi vicendevolmente il seguire “l’ordine irrazionale ed istintivo, talvolta breve e folgorante, della pura soggettività immersa nella casualità desiderata”, e abbracciare in toto la brutalità primitiva di un luogo, come fosse “un’offerta mistica e pagana”.

Solo il viaggiatore, questo anatomista che fa esperienza e che non compara, e che si lascia penetrare dal liquido locale con passivita’ generosa, è il guerriero più audace contro la quadrettatura e il cronometraggio dell’esistenza.

Con quest’inno al viaggiare esistenzialmente e materialmente inteso, scevro da moralismi e cerebralismi inzuppati nel tedio e nella triste categorizzazione dell’esistenza, Onfray sembra laicizzare il divertissement pascaliano e liberarlo dai longevi artigli di una logica ancora legata al possesso e all’avida deliberata ricerca di uno stato esistenziale.

Il viaggio per Onfray non è entità, non è stato, non è neppure il fluire o il mutare di essi. È un qualcosa che non si chiama e che esiste con noi e con il nostro approccio alla nostra personale esistenza. Nostro, per chi lo sceglie.

Chissà se Onfray riuscirà a superarsi con il suo prossimo testo, come continua a fare. Ho la certezza che lo farà… e”che l’ultimo viaggio non sarà affatto l’ultimo”.

Estella Carpi

 

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