Domani è un altro giorno. Una recensione

Per caso, ho letto che Silvia Lutzoni ha scritto una recensione del romanzo di Abdelhamid Benhaduga Domani è un altro giorno. Naturalmente incuriosita le ho chiesto se poteva farmene avere copia e genitlmente me l’ha inviata. Ve la propongo qui perché mi pare vi siano un paio di osservazioni interessanti in relazione alla scrittura in lingua araba. [La recensione è stata inclusa Silvia Lutzoni, Atri orienti. Trentaquattro scrittori arabi in trasferta, Sette  Città, Viterbo 2011, p.  33-34).

«Nessuna lingua è estranea, a condizione di praticare prima di tutto la propria. Oggi mi esprimo in arabo dialettale, nella lingua del popolo algerino. Imparo anche a balbettare nella lingua chiamata berbera, la lingua degli antenati. E’ un doppio salto rischioso. Bisogna farlo o rassegnarsi all’alienazione». Così scriveva, nel 1975, il grande scrittore algerino Kateb Yacine, ben consapevole dell’annosa disputa che ha impegnato e continua a impegnare gli intellettuali maghrebini, e che vuole la letteratura del nord Africa sempre filtrata da una prevaricante ottica francofona. Ecco: è proprio ai suoi libri che non possiamo non accostare l’intenso romanzo dello scrittore algerino scomparso nel 1996, Abd al-Hamid Benhaduga, Domani è un altro giorno, a conferma che una letteratura in lingua araba è ancora possibile (e, visti i risultati, auspicabile), nei modi di una scrittura che ha come carattere saliente l’opposizione, la resistenza al colonialismo e alla costituzione d’una cultura nazionalista voluta da una classe dirigente chiusa in sé stessa e arrogante. A pubblicarlo è la lodevole Jouvence di Roma, una delle poche case editrici a credere nell’impegnativa pratica della traduzione dall’arabo: un impegno che è valso alla traduttrice Jolanda Guardi il premio speciale del Presidente della Repubblica per le traduzioni dall’arabo.
La storia prende avvio nel momento in cui Mas‘uda, una «grande vecchia» che ha vissuto le fasi fondamentali della guerra d’indipendenza, subendo i soprusi del colonizzatore e crescendo nel disprezzo dell’algerino francese ad esso asservito. E’ lei che, in attesa di compiere il pellegrinaggio rituale alla Mecca, tappa conclusiva nel percorso spirituale di ogni musulmano, decide di affidare il racconto della sua vita a uno scrivano. Comincia così una storia che ci restituisce, secondo una cronologia non lineare, un suggestivo intreccio di vita privata e storia sociale dell’Algeria, dentro un discorso tale da involgere considerazioni di più ampio respiro, riguardanti tutto il mondo arabo, che arrivano fino ai fatti della prima guerra del Golfo e ai prodromi della terribile mattanza integralista in Algeria.
Narrativamente screziatissimo, soprattutto in forza della moltiplicazione dei punti di vista (quello di Mas‘uda, quello dello scrivano e dei vari personaggi via via menzionati), il libro pare ripercorrere le vie dei nomadi del deserto, con allontanamenti e ritorni improvvisi, tutti rivolti verso l’unico e costante fine che è quello di riportare alla luce le vestigia d’una storia e d’una identità schiacciate, talvolta, dall’illusoria civilizzazione colonialista. Eccoci quindi proiettati in una terra in cui i legami tribali sono ancora vivi e presenti: sembra quasi di vederle le donne berbere, con gli abiti dai colori sgargianti e il viso tatuato, quale segno indelebile di appartenenza alla cultura degli Imazighen, a dispetto dell’omologazione occidentale imposti dall’occupante: «La Francia è senza pietà», dice uno dei narratori, «schiaccia colui che solleva la testa come il grano sotto la macina».
Ciò che sorprende è, però, la sconcertante attualità delle considerazioni che Benhaduga affida a Mas‘uda, e sconcertante proprio perché il libro è stato pubblicato nel 1992: «Perché la nostra gioventù, nel fiore degli anni, si mette a portare la barba nera asiatica? Perché il nostro paese improvvisamente è avvolto nelle tenebre?Ai tempi dell’occupazione, gli uomini avevano la barba, ma una barba leggera, all’algerina. Come per il velo, era un modo per distinguersi dall’occupante. (…) queste barbe hanno snaturato il nostro ambiente e i nostri valori; diventiamo incapaci di distinguere il vero dal falso, il religioso dal sociale.» E poi: «questi ‘Mongoli’ ci porteranno un Islàm che somiglia alla democrazia di Franco e di Pinochet»! L’autore non risparmia neppure le dinastie saudite, alle quali riserva giudizi al vetriolo: «Il pellegrinaggio resta tra le mani di coloro che hanno il braccio abbastanza lungo per assicurare la protezione dei luoghi santi, pronti a stringere alleanze anche in capo al mondo!». E ancora: «Ciò che mi rende triste è la Mecca e i suoi pellegrini, Baghdad e i suoi abitanti, Algeri e le sue strade. Mi rattrista questo Islàm sanguinario, che vuole eliminare dalle nostre esistenze qualunque gioia di vivere, per spedire le persone direttamente all’altro mondo, come criminali».
Sarebbe tuttavia limitante pensare a questo romanzo esclusivamente come il gesto liberatorio, mai deferente di uno scrittore d’un paese cosiddetto postcoloniale. Al di là dell’enfasi che è riservata al carattere resistenziale e all’analisi storica, rimane, infatti, la complessità d’un personaggio come quello di Mas‘uda, il quale va oltre ogni  banale operazione di political correctness  (a differenza di quanto è accaduto nel romanzo maghrebino degli ultimi decenni, che ha talvolta strumentalizzato le figure femminili), la cui forza e determinazione ci rimandano, ancora una volta, ad un’altra importante figura allegorica dell’Algeria quale fu Nedjma, la protagonista del più famoso romanzo di Kateb Yacine.