Diario d’Algeria

V. Sereni, Diario d’Algeria, Einaudi, Torino 1998

Donatella Bisutti, poeta e animatrice con Jalal elHakmawi della rivista di prosa poesia Electron Libre, ha utilizzato Sereni e la sua esperienza in Algeria per il titolo del suo libro La poesia salva la vita, proprio perché è  attraverso l’esperienza poetica vissuta in Algeria che Sereni ha potuto superare gli anni di prigione trascorsi nel paese.

Nel 1943 Sereni viene fatto prigioniero in Sicilia e inviato in Algeria, dove resterà due anni. La raccolta di cui parliamo sarà pubblicata una prima volta nel 1947. In essa, l’Algeria, anche se luogo di detenzione, diviene non solamente il luogo dell’ispirazone poetica in relazione alla patria lontana, ma anche in sé, come dimostra la poesia seguente:

Non sanno d’esser morti,
I morti come noi,
non hanno pace.
Ostinati ripetono la vita
Si dicono parole di bontà
Rileggono nel cielo i vecchi segni.
Corre un girone grigio in Algeria
Nello scherno dei mesi
Ma immoto è il perno a un caldo nome: ORAN.

Questi versi toccano una corda interiore ed esprimono al contempo la disperazione del prigioniero che si considera come morto poiché lontano dalla patria ma che, nei mesi che passano, trova un punto di riferimento in Algeria, Orano.

O ancora, l’Algeria diviene il ricordo dell’amore e dell’esperienza di un nuovo modo di comporre; la raccolta, in effetti, rappresenta una cesura con le modalità di composizione poetica in lingua italiana e diventerà un modello per i poeti italiani contemporanei:

Ahimè come ritorna
Sulla frondosa a mezzo luglio
Collina d’Algeria
Di te nell’alta erba riversa
Non ingenua lal voce
E nemmeno perversa
Che l’afa lamenta
E la bocca feroce
Ma rauca un poco e tenera soltanto

Qui il poeta di stende sulle colline ed è la natura che gli rimanda la voce dell’amata come se stesse per dire qualcosa, voce che il calore rende rauca e tenera; il paese trasforma l’immagine di coloro che abbiamo lasciato ma non necessariamente in qualcosa di negativo; l’ultimo verso si stacca dal corpo principale del poema e, con l’ordine delle parole inusuale, forza il lettore stesso ad avere una voce roca.

O ancora, in questa poesia intitolata Algeria:

Eri prima una pena
Che potevo guardarmi nelle mani
Sempre della tua polvere più arse
Per non sapere più d’altro soffrire.
Come mi frughi riaffiorata febbre
Che mi mancavi e nel perenne specchio
Ora di me baleni
Quali nel nero porto fanno il giorno
Indicibili segni delle navi.
.  .   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

L’Algeria che era prima “una pena”, cioè a dire una sofferenza che il poeta poteva “guardarsi nelle mani” diviene una febbre di cui l’autore soffre la mancanza e che viene costantemente rinviata dallo specchio di sé. La poesia termina con una riga di punti di sospensione, segno del hanìn nei confronti dell’Algeria e, è una mia lettura ovviamente, espressione di un’affinità con le modalità di composizione proprie alla lingua araba.