Città di sale

‘Abd al-Rahman Munif, Città di sale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007, trad. di C. Bonadies Titolo originale (come da volume pubblicato in italiano) Cities of Salt, 1984.

“Sì, ho vissuto questa vita quando mi trovavo nelle regioni situate a nord dell’Arabia Saudita, vicino alla Giordania. Esiste, in un modo o nell’altro, tra molte scene del romanzo e me stesso, un legame molto stretto. Ero presente quando il petrolio ha cominciato. Oggi vediamo le cose nei loro effetti finali.”

L’ambientazione di Città di sale – primo romanzo di una pentalogia dedicata ai cambiamenti dovuti alla scoperta del petrolio – è quella di un regno senza nome collocato nella zona del Golfo negli anni ’30. In esso si narra della distruzione e della diaspora di una povera comunità oasiana in seguito alla scoperta del petrolio nella zona. Arabi e Americani si uniscono nello sfruttamento e nella colonizzazione della regione, senza tener conto delle esigenze delle persone coinvolte. Se l’ambientazione è volutamente vaga, segno che Munif, come in altre sue opere (a esempio A est del Mediterraneo, Jouvence, Roma 1993, trad. di M. Ruocco), esprime nei suoi romanzi considerazioni generali applicabili al mondo arabo, alcuni riferimenti precisi collocano l’azione del romanzo in Arabia Saudita, nello specifico nel rapporto fra società tribale/tradizionale e islam/potere politico. Numerose, infatti, sono le somiglianze fra il sultano Khuraybit, personaggio fittizio, e ‘Abd al-‘Aziz ibn Sa‘ud. Come il fondatore dell’Arabia Saudita, Khuraybit si trova in esilio quando decide di lanciarsi alla riconquista del regno dei suoi antenati. I due uomini sono entrambi convinti di aver visto il loro destino in sogno. Fisicamente sono entrambi descritti come possenti e dodati di forza fuori dal comune. I figli di Khuraybit, Khaz‘al e Fanar, sono i sosia di Sa‘ud e Faysal. Queste somiglianze, certo non casuali, non sono, del resto, sfuggite ai sauditi che, all’indomani dell’uscita del romanzo in lingua araba ne hanno pesantemente attaccato l’autore. Le critiche, tuttavia, sono giunte anche da altri scrittori e critici arabi che hanno ritenuto Città di sale un testo che si fregia abusivamente del titolo di romanzo, mentre sarebbe in realtà un trattato storico. Critica questa in parte giustificata dalla narrazione stessa, che si vuole oggettiva e presenta al lettore la concatenazione degli avvenimenti come un testo di storia, impressone rafforzata anche dall’elevato numero di personaggi.

È Munif stesso, del resto, a fornirci questa chiave di lettura in un suo saggio, Ad-dimuqratiyya awwalan ad-dimuqratiyya da’iman (La democrazia innanzitutto, la democrazia sempre, Al-mu’assasa al-‘arabiyya lil-dirasat wa al-našr, Bayrut 1992, p. 222): “Nella mia qualità di romanziere, di fronte alla grande e pericolosa complessità che ha le sue radici nel passato, mi è parso necessario, per trattare della questione attuale, studiare la storia di questa regione, seguire come si è evoluta e osservare le ripercussioni di queste evoluzioni. In qualità di abitante di questa regione e di una delle sue vittime, con i miei studi di economia pertrolifera e il mio lavoro, svolto per lunghi anni in questo campo, ma anche perché non ho ancora trovato la formula politica che possa provocare cambiamento o contribuirvi, in modo riflessivo, credo che il romanzo sia la forma più adatta per leggere in modo riflessivo, oggettivo ma anche estetico questa società. Questo quel che mi ha spinto a scrivere i cinque volumi di Città di sale. Sono convinto che il romanzo sia una delle letture che consentono di comprendere una società in una delle tappe più importanti della sua evoluzione”.

Città di sale, dunque, è un romanzo ma non solo un romanzo; il ritmo è quello dei bisogni delle compagnie petrolifere che infliggono una pesante trasformazione al paesaggio e alle persone. L’autore, seguendo questa trasformazione, ci ricorda l’aggressione perpetrata contro la storia del luogo e degli abitanti della penisola, descrivendo questo cambiamento brutale della vita degli abitanti della zona, gli stessi che solo fino a pochi anni prima della scoperta del petrolio rimanevano stupiti davanti al passaggio di un’auto. Da esperto qual è, Munif affronta in modo “scientifico” i problemi della regione: la distruzione dell’ambiente e dei modi di vita tradizionali, l’abbandono di alcuni valori ancestrali, l’occidentalizzazione, la scomparsa della solidarietà tradizionale, la costruzione di una nuova forma di autorità, lo sviluppo di infrastrutture e attività economiche importate dall’Occidente.

Sabry Hafez, in un saggio pubblicato su New Left Review nel 2006, (n. 37, pp. 39-66) intitola un suo contributo su Munif “An Arabian Master”, e in effetti egli non può che essere definito “Arabian”, termine sicuramente vago. Cercare tuttavia di collocarlo all’interno di una produzione nazionale pone alcuni problemi che si ritrovano anche in altri autori e autrici arabi, ma che in Munif sembrano acuirsi: il padre, saudita, era un carovaniere che svolgeva attività commerciale in tutto il Medio Oriente, la madre un’irachena di Baghdad. Munif nacque ad ‘Amman, in Giordania. Tutta la sua opera risente di questa triplice appartenenza. Egli, infatti, non può essere considerato a pieno titolo un autore saudita, poiché la letteratura di tale paese sta avendo proprio in questi anni il suo massimo sviluppo (226 romanzi pubblicati tra il 2000 e il 2006 contro 67 tra il 1981 e il 1990), ma è tuttavia una letteratura per lo più scritta al di fuori del paese, a motivo della fortissima censura, o che di tutto si occupa tranne che dell’impegno politico – basti pensare al recentissimo Banàt Riyàd (Mondadori, Milano 2007, trad. di V. Colombo), mentre Munif fa dell’impegno nei confronti di tutto il mondo arabo il leit motiv che percorre tutta la sua opera. Né è possibile collocarlo all’interno della produzione romanzesca irachena, che ha visto negli ultimi anni tradotti anche nella nostra lingua autori come Fu’ad at-Takarli (L’anello di sabbia, Edizioni Lavoro, Roma 2007, trad. di E. Diana) o ‘Aliya Mamduh (Naftalina, Jouvence, Roma 1998, trad. di M. Avino), certamente di rango ma legati nelle loro opere alla situazione contingente del proprio paese. Se volessimo, dunque, collocare a ogni costo un autore come Munif potremmo dire ch’egli, ecco, appartiene veramente alla nazione araba, elemento che il narratore sottolinea fin dalla sua prima opera letteraria, Gli alberi e l’assassinio di Marzuq (Ilisso, Nuoro 2004, trad. di M. Avino) situando l’azione in un paese arabo senza nome, espediente che ritroviamo in Città di sale, ma anche in A est del Mediterraneo, opera che tratta della tortura nel mondo arabo. L’appartenenza alla nazione araba in generale, evidenziata anche dalla critica non solo ai regimi ma agli Arabi stessi che preferiscono attribuire la responsabilità degli eventi a un inconsistente “fato” piuttosto che interrogare se stessi e agire, lo porterà ad affermare per bocca di uno dei protagonisti del romanzo Gli alberi e l’assassinio di Marzuq, in relazione alla questione palestinese: “Posso capire che veniamo sconfitti cento volte, quello che non capisco è che concepiamo le nostre sconfitte come vittorie”. Quest’impegno, pur se rende l’opera di Munif di carattere universale, condanna l’autore a un perenne esilio, fisico e intellettuale. Il tema dell’esilio torna frequentemente nelle opere di Munif intessendo una narrativa che lo porta a ricordare un passato in parte idealizzato e non corrispondente alla realtà, e a continue digressioni, che rendono a volte faticosa la lettura del testo.

“Essere in esilio significa […] acquisire uno statuto ambiguo la cui spiegazione risulta in accuse di vario genere” (‘A. Munif, Al-katib wa al-manfà: humum wa afaq ar-riwaya al-‘arabiyya, Bayrut 1992, pp. 85-87).

Ed è in esilio che Munif scrive la pentalogia di Città di sale. Il volume qui presentato porta nell’edizione orginale un sottotitolo – come ognuno degli altri quattro: Al-Ukhdud (Il solco), Taqasim al-layl wa al-nahar (Variazioni della notte e del giorno), Al-munbatt (Lo sradicato), Badiyat al-zulumat (Il deserto dell’oscurità) – del quale nell’edizione italiana non v’è traccia: Al-tih, il deserto. E, infatti, anche dal punto di vista stilistico è costruito con un’estrema libertà formale che richiama il modo di esprimersi di un cantastorie del deserto, stile che non si ritroverà negli altri quattro volumi, ognuno con una prorpia struttura narrativa differente, ma tutti caratterizzati dalla volontà, in ogni caso, di arrivare a una lingua che sia una via di mezzo tra l’arabo classico e la parlata colloquiale, per poter essere veramente letto da tutti.

L’interesse dell’opera di Munif sta anche nella contraddizione di cui il romanzo è portatore: l’autore, di idee nazionaliste e di sinistra, presenta in Città di sale la nostalgia per un passato tribale basato su alleanze e rapporti clientelari che tende nella realtà più a dividere che a unire i membri della società, in questo accostandosi a Ibrahim al-Kawni, autore libico che nei suoi romanzi e racconti presenta la società beduina come modello cui far riferimento con nostalgia senza sottolinearne gli aspetti negativi. Cionostante, o forse proprio per questo, la società saudita viene presentata con un occhio realistico e non come il luogo mitizzato dall’apologia legata ai luoghi santi dell’Islàm. Tutto a posto e niente in ordine: contro il discorso dello stato saudita, Munif offre al lettore arabo e occidentale un’opera di ampio respiro e una lettura critica delle politiche economiche arabe e occidentali.

6 Risposte a “Città di sale”

  1. Bell’articolo! Sarebbe stato bene come introduzione all’edizione italiana del romanzo… Mi ricordo che invece la vera introduzione era un riciclo di quella a Gli alberi e l’assassinio di Marzùq. Peccato, perché il romanzo è complesso e secondo me il lettore italiano è stato lasciato un po’ troppo a sé stesso. Almeno, io mi sono sentito spesso smarrito quando lo leggevo l’anno scorso.

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