Ancora sulla traduzione

Qualche tempo fa parlavo di traduzione con un’amica e dopo la nostra conversazione mi sono messa a pensare, complice anche il fatto che stavo preparando la mia prima lezione in lingua spagnola proprio sui temi legati alla traduzione dall’arabo e all’epistemologia. Come ho avuto già occasione di affermare in pubblico e in privato quel che lamento è la mancanza di un quadro teorico in cui la tematica sia stata dibattuta.

Eppure gli studi di “arabistica” (che non è una disciplina) hanno in Italia una lunga tradizione, che ha avuto inizio nel Medio Evo (1) per ragioni religiose e politiche (2). Queste ragioni non sono cambiate nel tempo e hanno prodotto molti studi importanti nel campo, scritti da studiosi perfettamente consapevoli dello scopo del loro lavoro. Nel tempo, studiosi e università hanno cercato di sganciarsi dal discorso politico per creare uno spazio chiuso nel quale lo studioso potesse praticare la propria disciplina separato dalla società. Questo ‘apartheid intellettuale’ a portato a definire il profilo dello studioso di arabo come qualcuno che “delimita per se stesso un campo in cui, con i propri colleghi, è maestro e sovrano, respingendo ogni apporto pertinente da parte di chi si trovi al di fuori di tale campo”, come afferma Maxime Rodinson (3).

L’accordo e il sostegno all’impresa coloniale italiana erano ispirati da un orgoglio patriottico che suggeriva l’adesione a un modello di Italia come erede del mondo greco-romano, un ponte tra il Mediterraneo e l’Europa secondo un ideale positivista nel quale l’elemento razziale e quello patriottico svolgevano un ruolo centrale: il prestigio nazionale e la missione civilizzatrice rappresentavano l’evoluzione ideologica – e affascinante – dell’espansione nel Mediterraneo, personificata da intellettuali di rango in Italia al tempo del Risorgimento e dell’unità. Il nucleo del mito di questa visione politica è espresso nel discorso “Le popolazioni delle colonie italiane” pronunciato nel 1913 all’incontro annuale dell’Accademia dei Lincei e centrato sull’impresa libica: l’Italia vi viene celebrata come potere benigno e promotore della ‘redenzione’ dell’Africa (4).

Pur se lo sviluppo degli studi di arabistica ha le sue ragioni storiche, il problema permane oggi, nel momento in cui gli studiosi operano una sorta di processo di rimozione che non permette una prospettiva critica e che fa sì che l’arabistica italiana permanga in una sorta di stagnazione. Più di una volta gli studiosi hanno ricordato che gli studi di arabistica sono destinati solamente a un’élite (5) e l’apertura degli studi di arabo alle “masse” (6) viene considerata in prospettiva negativa.

Ciò ha fatto sì che lo studio della lingua araba e della letteratura araba significasse principalmente studio di una lingua morta e della letteratura classica, senza interesse per il suo utilizzo come lingua di comunicazione. Il modello prevalente negli studi letterari e quindi, di traduzione è stato quello filologico; che non è negativo di per sé, ovviamente, ma che è senza dubbio autoreferenziale e permette allo studioso di muoversi in una sfera linguistica e concettuale ben definita. In tal modo la letteratura non viene vista come il risultato di diversi fattori intervenienti all’interno di una data società (7).

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Ma veniamo al dunque: si sono così sviluppati due discorsi, uno reale e uno virtuale, complice la traduzione. Il fatto che non vi sia un quadro teorico di riferimento porta a favorire un’immagine che non ha nulla a che vedere con la realtà. Si forma così l’idea di gruppo omogeneo identificato in modo precedente a qualunque processo di analisi, e  tutto quel che si riferisce a questo gruppo virtuale serve semplicemente a consolidare un’idea e niente di più. Come afferma Ibrahim Ferghali: “Non capisco perché l’opera letteraria deve diventare un’opera sociologica”. Ferghali ha pubblicato un articolo dal titolo
هل هناك أهمية لترجمة الأدب العربي إلى لغات أجنبية حقا؟
(E’ davvero importante tradurre la letteratura araba in lingue straniere?) nel quale si pone alcune interessanti domande a partire dalla sua esperienza di scrittore e giornalista sulla traduzione in lingue europee e sull’istituzione dei premi Naguib Mahfuz e Booker Prize (arabo). In poche parole si chiede quale sia l’utilità della traduzione se questa è legata ai romanzi che vincono i premi che, a loro volta, sono attribuiti per motivi che nulla hanno a che vedere con il valore letterario di un’opera. Ferghali fa un esempio: si chiede perché sia stato tradotto Banàt Riyàd, di scarso valore letterario, e considerato dalle recensioni come opera che presenta la situazione delle giovani donne in Arabia Saudita e non al-Akharùn che tratta lo stesso tema ma è un romanzo di valore. (Li ho letti entrambi e concordo). E affronta anche un altro tema a me caro e cioè il silenzio su autori come Tahar Wattar e altri, inspiegabile se il criterio fosse quello dell’importanza dal punto di vista letterario.

Le condizioni della produzione di testi letterari sono determinate dall’economia (pubblicazione, distribuzione, marketing) e lo stesso vale per la traduzione. Pertanto quello che dobbiamo domandarci è in che modo viene percepita l’autorialità e in che modo si costruisce un canone, tenendo in considerazione che i significati testuali vengono prodotti dal contesto socio economico e dall’ideologia del lettore più che esistere in un iperuranio, ossia in un regno trascendentale apolitico. Ogni volta dovremmo chiederci: che tipo di letteratura viene offerta al lettore? che forma utilizza? che miti crea? che influenza esercita sul lettore l’immagine che si crea?

Se avete tempo, andate a fare un giro nel database dell’UNESCO Index Translationum e lanciate una ricerca dei titoli tradotti in italiano (ma anche il castigliano non scherza!) dal 2000 al 2013. Il database si configura come ufficiale, cioè un sito di riferimento per chi desidera compiere ricerca sulla traduzione a livello mondiale. Il primo dato è che l’Italia non aggiorna il database… quindi chiunque parta da qui compirà una ricerca viziata in partenza. L’UNESCO ha anche pubblicato un report, Publishing Translations in Europe Trends 1990-2005, nel quale l’Italia non è citata.

Note

(1) A. De Gubernatis, Matériaux pour servir à l’histoire des études orientales en Italie, (Paris: Ernest Leroux, Librairie de la Société Asiatique, 1876); Kees Versteegh, “Prefazione”, in Vedi alla voce : lingua araba. Elementi di linguistica per lo studio e la conoscenza dell’arabo, ed. Jolanda Guardi (Milano: A Oriente!, 2008), 7-10.

(2) Per una breve storia degli studi di arabistica in Italia si veda Raniero Gnoli, “La Scuola di Studi Orientali”, in Le grandi scuole della sapienza (Roma: Università di Roma, 1994, 409-411); Ali Kalati, “L’insegnamento della lingua araba in Sardegna”, AnnalSS 2, 2002 (2005): 275-289; “Storia dell’insegnamento dell’Arabo in Italia. I Parte: Roma e Napoli”, AnnalSS 3 2003 (2005): 299-330; “Storia dell’insegnamento dell’Arabo in Italia. II Parte: Palermo e Venezia”, AnnalSS 4, 2004 (2007): 280-295.

(3) Maxime Rodinson, Il fascino dell’Islam (Bari: Edizioni Dedalo, 1988), p. 114.

(4) Ignazio Guidi, Le popolazioni delle colonie italiane: Discorso letto nell’adunanza solenne del 1 giugno 1913 (regia Accademia dei Lincei), (Roma: Tip. R. Accademia Dei Lincei, 1913), 4: 10. Per un’analisi più dettagliata delle motivazioni ideologiche che stanno alla base dello studio dell’arabo in Italia Jolanda Guardi, “L’étude de la langue arabe et le discours colonial en Italie”, IBLA Revue de l’Institut des Belles Lettres Arabes, 199, Tunis (2007), 29-50.

(5) Laura Veccia Vaglieri, “Gli studi di lingua e grammatica araba”, in Gli studi sul vicino Oriente in Italia dal 1921 al 1970, (Roma: Istituto per l’Oriente, 1971), 109-129.

(6) Francesco Gabrieli, Stato degli studi di Arabistica e Islamistica in Italia”, in La presenza culturale italiana nei paesi arabi: storia e prospettive, Atti del Convegno, Napoli, 28-30 maggio 1980, (Roma: Istituto per l’Oriente, 1982), 19-29, 25.

(7) Terry Eagleton, Introduzione alla teoria letteraria, (Roma: Editori Riuniti, 1998) 218-242.