بركات Barakàt 2-Letteratura

Seconda puntata. Nella lista del Libraio la letteratura araba brilla per assenza. La domanda è: perché? Visto che ho sostenuto nel post di ieri che la scelta non è casuale come vorrebbe apparire, ho collegato questa assenza all’imperare del pensiero unico e al valore generalizzante che viene dato al concetto di modernità. L’assenza di letteratura significa in qualche modo assenza di cultura e, ovviamente, quest’assenza rende più facile giustificare il ritorno del determinismo, del “noi (civilizzati) e loro (primitivi)”.

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Avevo scritto fin qui, quando leggo questo. E devo ripensare il post.

Sulla copertina del e-book è scritto “Parigi 13 novembre. Sangue, morte, caos. La letteratura araba ci spiega perché”. Ah però. La presentazione prosegue affermando che il testo è un excursus dal V – dico V – secolo preislamico (il secolo, sic!) al XX. Ah però (2 volte). Immagino una mole superiore a Brockelmann.

Già queste affermazioni mi irritano ma,  per poter criticare, devo leggere. Scarico quindi l’e-book sul mio Kindle – è gratuito e vorrei ben vedere che non lo fosse –  e lo leggo. 74 pagine che parlano di tutto tranne che di letteratura. Un capitolo di storia della letteratura che passa bellamente dalle mu’allaqàt direttamente alla nahda, ma quello che interessa – sostiene l’autore – è la letteratura contemporanea. Che consiste in Qabbani, Fadwa Tuqàn, Darwish – tutti pericolosi poeti che incitano alla lotta e quindi alla violenza, Khanafani, Mahfùz – l’unico che l’autore salva. Sbrigativamente liquidato il tutto si passa ai veri “autori” del libro, colonne della letteratura araba: Sayyd Qutb, Khomeini (notoriamente arabo) e Ben Laden. Dimenticavo: un paio di paragrafi sul Corano, ovviamente, che l’autore afferma di analizzare molto in profondità. Una profondità di circa un millimetro.

Vorrei dire alcune cose a Felice Florio. Mi spiace per lui. Mi spiace che non riesca ad apprezzare la bellezza della poesia araba, mi spiace che non possa godere quando legge di “riccioli come rami carichi di datteri maturi” (Imru’ l-Qays); o delle “mute immortali che parlano” (Labid); o “la mia vicina, è come avesse vergogna, mi visita soltanto la notte” (Mutanabbi e non parla di una donna); o quando Abu Tammàm dice “la spada è miglior profeta dei libri” – che in arabo ovviamente è verso molto più bello. Mi spiace che Fadwa Tuqàn, quando afferma “non piangerò” venga scambiata per una poeta che incita alla guerra, così come Mahmud Darwish. Mi spiace che non colga la trasgressione linguistica e tematica delle poeta e dei poeti arabi e il piacere che danno alcune parole accostate, la modernità dei giovani poeti marocchini e tunisini, che non colga come la poesia salvi la vita (cit.) anziché essere portatrice di violenza e che non capisca, come afferma Virginia Woolf, che “Mi serve un po’ della lingua che usano gli amanti. Non ho bisogno di parole, niente di preciso. Ho bisogno di un ululato, di un grido”.

Ciò detto l’operazione è vergognosa: un titolo per attirare l’attenzione e farsi pubblicità su un lavoro ridicolo dal punto di vista del metodo, delle fonti e dell’impostazione di metodo per arrivare ad analizzare – sempre secondo l’autore – tre noti autori di letteratura araba quali appunto Qutb Khomeini e Ben Laden. Disonesta intellettualmente e falsa.

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Alla luce di questo, non darò la mia lista di letteratura araba. Perché non bisogna dire cosa leggere in fondo, ma come leggere.  Leggere letteratura araba come ribellione a questo tipo di testi e alla propaganda imperante contro il mondo arabo. Leggere qualsiasi romanzo o poesia della letteratura araba. Farsi minoranza per resistere e leggere. Leggere. Leggere.

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